Amras

Alessandro Litta Modignani

La recensione del libro di Thomas Bernhard, Einaudi, 87+XIV pp., 15 euro

K., il protagonista appena ventenne, racconta nella sua visione allucinata il suicidio dei genitori e la malattia senza scampo del fratello Walter, di un anno minore. Walter soffre di epilessia, ereditata dalla madre, entrambi sono oppressi dai debiti e dal fallimento del padre. Incatenati l’uno all’altro, Walter trascinerà K. nel gorgo della sua impossibilità di vivere. Ma la trama, gli eventi, sono del tutto secondari in Amras (1964) secondo romanzo di Thomas Bernhard dopo l’esordio con Gelo.

  

Vede giusto Vincenzo Quagliotti nella prefazione, quando descrive in termini di “aporìa” la situazione esistenziale dei personaggi di Bernhard: nei suoi romanzi i protagonisti sono caratterizzati, sempre e da subito, da una condizione senza vie d’uscita, segnati da un destino che non lascia scampo. La loro malattia è “immedicabile”. Al lettore, per rendersene conto, bastano poche parole iniziali: “Dopo il suicidio dei nostri genitori siamo stati rinchiusi per due mesi e mezzo nella torre, emblema della nostra Amras (…). La torre, proteggendoci dagli attacchi degli uomini, nascondendoci e salvandoci dagli sguardi del mondo che agisce e giudica solo con malvagità, è stata per noi un rifugio”.

  

Non stupisce che l’autore abbia giudicato Amras il suo libro prediletto. “Non sono un narratore di storie, io odio profondamente le storie. Sono un distruttore di storie (…) Lo stesso accade con le frasi, avrei voglia di far fuori intere frasi che potrebbero eventualmente formarsi, prima ancora che si formino”, disse Bernhard in riferimento a se stesso.

 

Anche qui, come in altre opere successive, i protagonisti sono rovinati dalle nevrosi familiari, in un rapporto caratterizzato da solitudine, incomunicabilità, sofferenza. La tecnica utilizzata è tipicamente quella del flusso di coscienza, espressione di una mente schizoide, farneticante. La prosa è decostruita, le frasi spezzate, la trama evanescente. K. si esprime attraverso lettere, schizzi narrativi, pagine di diario, aforismi, monologhi. L’ambientazione e i dialoghi ricordano il teatro dell’assurdo di Beckett e Pinter. “Rincuorati solo dalle attenzioni dello zio, che veniva a trovarci due volte la settimana, ogni martedì e ogni sabato – più spesso e in altri giorni non glielo consentiva la sua attività di agricoltore – sempre di buon umore, così ci pareva, sempre provvisto di giornali informazioni e novità (le quali però non facevano che sconvolgerci) tutt’a un tratto la nostra esistenza non poteva contare su null’altro che sui nostri caratteri terribili, feriti da sempre, sospettosi e poco tenaci, in una tenebra che congiurava sempre di più contro di noi, perturbando persino le nostre capacità di camminare, di sederci, di coricarci o di stare in piedi, e – com’è naturale – la nostra capacità di pensare e di esprimerci, e quella di ragionare in generale, nella tenebra di quella torre che a noi pareva non secolare ma millenaria”.

  

Un’implacabile agonia conduce i due fratelli alla follia e alla morte. In Amras tutto è tragedia, o annuncio di tragedia.

   

Amras

Thomas Bernhard

Einaudi, 87+XIV pp., 15 euro

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