Io, lei, Manhattan

Andrea Frateff-Gianni

La recensione del libro di Adam Gopnik, Guanda, 314 pp., 19 euro

Se probabilmente la maggior parte dei freelance indigenti che collaborano con le riviste fighette milanesi e la maggior parte dei redattori delle case editrici indipendenti romane che votano Potere al Popolo vorrebbero vivere in un loft a SoHo o nel Lower East Side di Manhattan piuttosto che in uno squallido monolocale a NoLo o al Pigneto, sicuramente, moltissimi di loro, vorrebbero essere Adam Gopnik. Esempio vivente del giornalista di successo, storica firma del New Yorker, racconta nel suo ultimo libro Io, lei, Manhattan gli anni della sua ascesa e del suo arrivo nella Grande mela attraverso una narrazione che si snoda su tre piani paralleli e che comprende la sua storia d’amore con Martha, (la lei del titolo), il ritratto antropologico di una città, (New York), e il racconto di un’epoca, (gli anni 80).

 

Sbocciavano fiori e scintillavano luci in quel periodo a New York e Adam Gopnik proprio in quel tempo stava vivendo gli anni ruggenti ed elettronici della sua gioventù. Arrivato con quella che successivamente diventerà sua moglie dal Canada, si trasferisce in un minuscolo appartamento di nove metri quadrati a Manhattan: “Si trovava nel seminterrato di un edificio moderno ma se allungavi il collo fuori dalla finestra riuscivi a scorgere dall’altra parte della strada le vetrate policrome della cappella della chiesa della Santa Trinità. Il che dava un certo tono al nostro scantinato”. Inizia così il racconto di una vita dove “un giorno servivi antipasti a un cocktail, e qualche mese dopo Gordon Lish ti faceva un contratto per pubblicare una raccolta di racconti con Knopf ”. Erano gli anni Ottanta a New York, il luogo dove le opportunità ti si paravano davanti con una fluidità impressionante e ti poteva benissimo capitare di iniziare a lavorare come commesso in una libreria per poi passare senza alcuna attitudine o merito particolare a revisionare testi per GQ senza capire un accidenti di moda. E ancora, senza troppa fatica, si riusciva a trasformare una topaia infestata di scarafaggi in un loft dai soffitti altissimi a SoHo, il villaggio degli artisti dove “chi serviva era simile a chi acquistava, dove attori disoccupati portavano la cena ad aspiranti pittori”.

 

Alla maniera di Hemingway, che in Festa Mobile raccontò in maniera impeccabile la Parigi degli anni Venti, così Gopnik ci regala un formidabile affresco della sua epoca newyorchese non tralasciando nulla e anzi aggiungendo alle sue esperienze personali anche efficaci descrizioni di oggetti iconici che rivoluzionarono la cultura pop e le abitudini degli americani: “I due grandi doni degli anni Ottanta furono il walkman e le sneakers super evolute che, messi insieme, convertivano il camminare in un’attività emozionale totalizzante”.

  

Un libro che è contemporaneamente una dichiarazione d’amore a una città, un’ode a un periodo storico irripetibile ma soprattutto la dedica a una donna, perché “il desiderio che provavo per lei era il motore di tutte le mie ambizioni”.

   

IO, LEI, MANHATTAN

Adam Gopnik,

Guanda, 314 pp., 19 euro

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