recensioni foglianti

Miti e simboli dell'India

Giuseppe Perconte Licatese

Heinrich Zimmer, Adelphi, 262 pp., 15 euro

Indra liberò il mondo dal drago e fu acclamato come re degli dèi. Chiese a Visvakarman, dio delle arti e dei mestieri, di costruire per lui una dimora senza eguali, ma man mano che i lavori procedevano le sue pretese si facevano sempre più grandiose. Devono intervenire Visnu e ŚIva, nelle spoglie di un bambino e di un vecchio, affinché il re apra gli occhi sull’esatta misura della sua gloria: anche gli dèi muoiono e si reincarnano innumerevoli volte, e innumerevoli Indra hanno già dato l’assalto al cielo per poi svanire. La rivelazione è così violenta che Indra andrebbe a vivere da eremita nella foresta, se Saci, sua moglie, e Brhaspati, il consigliere degli dèi, non lo convincessero a rimanere.

  
Con questa storia si apre il libro di Zimmer – scritto in realtà da Joseph Campbell, indologo della Columbia University, dove il tedesco trovò asilo alla fine degli anni Trenta per poi morire all’improvviso, lasciando due casse di articoli e appunti di lavoro. Il mito indiano ha mille volti, ora affascinanti, ora terribili, sempre elusivi. A volte incontriamo figure famigliari: Narada, che come Giobbe si vede strappare i familiari, gli averi, la casa da un’inondazione, in quella che è una prova con cui Visnu vuole dargli l’illuminazione; o il serpente cosmico, Ananta, che assiso sulle acque che circondano il mondo può far pensare al biblico Leviatano. Ma Narada non ottiene, né desidera, alcuna restituzione di ciò che ha perso, e tra la figura del serpente e quella del redentore Buddha non c’è antagonismo, ma alleanza. Zimmer ci aveva avvertito che gli schemi occidentali vanno lasciati da parte, perché l’India ci venga incontro nella sua “profonda estraneità”. Ma neanche lui lo fa sempre, come nelle pagine dedicate a Jalandhara, il titano che sfida ŚIva reclamando il mondo intero: condannato dai devoti indù, qui è oggetto di una simpatia che può provare solo chi ha letto Milton.

  
Gli animali sono un’altra presenza tipica del mito indiano: l’elefante, la tigre, o anche il pavone, cavalcatura di Skanda, dio della guerra, e protagonista di una leggenda in cui i mercanti indiani lo esibiscono come una meraviglia agli abitanti di Babilonia. I miti indiani sono pieni di colore e di clamore, eppure la metafisica indiana pone al fondo delle cose un assoluto indifferenziato e silenzioso, in cui tutte le forme e i volti sono destinati a sparire. La storia di Indra insegna che la meta della filosofia e dell’arte indiana è la liberazione dagli scopi dell’esistenza terrena, e questo a occidente ha sempre suscitato reazioni di segno diverso. Guido Ceronetti salutava nel principio divino indù (il brahman-ātman) l’Uno immacolato e redentore. Sergio Quinzio, convinto del primato del patire sull’agire, respingeva la dottrina secondo cui il corpo sarebbe solo l’involucro di un Sé spirituale che rimane impassibile tra le sofferenze. Zimmer, in linea con una tradizione del Medioevo cristiano, confidava di poter trovare anche nelle filosofie dei “gentili” frammenti della luce dell’unica rivelazione. 

 

MITI E SIMBOLI DELL'INDIA
Heinrich Zimmer
Adelphi, 262 pp., 15 euro

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