Fidia, di Lawrence Alma Tadema. ’ultimo progetto di Giorgio Colli, interrotto nel 1979 dalla morte, fu il restauro dei presocratici

Le lontanissime strade imboccate da Giorgio Colli

Matteo Marchesini

L’ultimo progetto del filosofo, interrotto nel 1979 dalla morte, fu il restauro dei presocratici. Un bel saggio di Federica Montevecchi sull’Empedocle

A volte si ha l’impressione che la cultura italiana del pieno Novecento sia nata almeno per metà negli anni 20 sui banchi del torinese liceo D’Azeglio, tra il rigore naturaliter antifascista del prof. Monti e i precoci conciliaboli degli alunni Einaudi, Pavese, Mila, Bobbio, Foa, Ginzburg. Appena più giovane di loro, anche Giorgio Colli studiò in quelle aule, ma per imboccare lontanissime strade greche, schopenhaueriane e nietzschiane. Infatti il mondo einaudiano, coi cerberi Cantimori e Bobbio, nel Dopoguerra tenne ai margini questo filosofo estraneo ai dominanti gruppi comunisti, idealisti o cattolici, e incline a un liberalismo distante dal fervore azionistico. Il rapporto si ruppe quando Einaudi bocciò la prima edizione critica di Nietzsche, che Colli realizzò poi insieme a Montinari grazie all’Adelphi, in quegli anni di boom in cui anche le controversie editoriali (vedi “Il Gattopardo”) segnarono la crisi del crociomarxismo. A quest’opera monumentale il filosofo accompagnava intanto numerose curatele, quasi identificando la ricerca teoretica col recupero filologico dei classici e con l’originalità delle traduzioni (Kant de-hegelizzato, “logos” reso con “espressione”, “physis” con “nascimento”…).

  

Il suo ultimo progetto, interrotto nel 1979 dalla morte, fu il restauro dei presocratici, termine svalutativo che sostituì con “sapienza greca”. Perché anche Colli, come molti postnietzschiani, risale alle sentenze enigmatiche e dialettiche dei primi filosofi-poeti, scavalcando all’indietro Platone, considerato troppo letterario, e la tragedia classica, giudicata una volgarizzazione dei misteri eleusini. Tra i sapienti che incarnano questi leggendari esordi c’è Empedocle, il cantore dei quattro elementi (acqua, aria, terra, fuoco) che costituirebbero tutte le cose nelle fasi di passaggio tra la contrazione del cosmo in un indistinto Uno, determinata dall’Amore, e la sua disgregazione, dovuta all’Odio. All’agrigentino, Colli intitolò addirittura il clima minaccioso e festoso del tardo XX secolo. La sua interpretazione viene discussa oggi in un bel saggio di Federica MontevecchiSull’Empedocle di Giorgio Colli” stampato da Sossella.

 

La Montevecchi, che nel suo percorso intellettuale ha tenuto insieme i dialoghi con Vittorio Foa e le indagini sulla Grecia colliana, nota come il filosofo moderno spieghi la vocazione del sapiente antico “a ricoprire i molti ruoli di politico e profeta, di mago e medico, a non fissarsi cioè in un’unica determinazione esistenziale (…) sulla base di ‘un sovrappiù di potenza interiore’” che “non può trovare espressione completa e definitiva nel mondo fenomenico perché a esso è estranea per natura”. Il destino empedocleo allude quindi a quella radice che secondo il “naturalismo mistico” di Colli sempre sfugge e oltrepassa il mondo come individuazione o rappresentazione. Il logos non può dar razionalmente conto di se stesso, al contrario di ciò che credono i moderni, perché alla sua origine sta un fondo “alogon”, irrazionale: ogni espressione insegue un’immediatezza inattingibile e inesprimibile. Il mondo intero, in questa visione greco-indiana, è pura apparenza, immagine che Dioniso produce guardandosi allo specchio; e l’enigma indica appunto la sproporzione tra la verità divina e il filtro della parola umana. Nel Novecento, è vero, altri autorevoli pensatori hanno evocato una “differenza” irrappresentabile, da Heidegger a Lacan a Derrida. Ma Colli evitò il confronto con loro, astenendosi da un dibattito che per dirla nel suo linguaggio burckhardtiano avvertiva più “statale” che culturale. Così schivò le trappole in cui cadde Nietzsche: compromissioni con un’attualità effimera, velleità politiche, risentimenti moralistici o romantici. Preferì agire su piccoli cenacoli attraverso quel dialogo vivo, orale, di cui la scrittura è appena l’ombra chiusa in una “quiete di morte”. E malgrado l’uomo non sia per lui che un sogno, questa sua azione ha l’accento della felicità. Lo si vede nel film che gli dedicò nell’80 il figlio Marco. Eppure lì il tempo, collianamente solo un’allucinazione, sembra più reale che mai. La pellicola fa risaltare le somiglianze tra i prodotti più diversi di una stessa epoca: l’inizio, col brusio della villa toscana, ricorda Bergman, e la scena in cui gli allievi concionano su Apollo lungo una spiaggia tirrenica potrebbe stare in “Ecce bombo”. Guardando Colli che corre in giardino pensavo al racconto di Moravia dove il misterioso Empedocle, scomparso nel magma indistinto dell’Etna, lascia dietro di sé la traccia così umana, così “datata” del suo sandalo di bronzo.

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