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Note sul destino degli studi umanistici

Matteo Marchesini

La (sovra) struttura accademica costringe lo spirito dentro barattoli burocratico-formali e pseudoteorici sempre meno coerenti con l’oggetto studiato

Ogni tanto, quando discuto con ventenni che nel linguaggio (“mi occupo di trauma studies”) ma anche nell’insofferenza (“qualcosa non torna”) sembrano vittime degli odierni dipartimenti di letteratura e di filosofia, o delle loro ramificazioni estetiche e socioculturali, prendo appunti sul destino delle discipline umanistiche. Destino che riserva spazi minimi a ciò che non è università o pubblicità editoriale (la prima aggiunge note in calce alla seconda). La (sovra) struttura accademica costringe lo spirito dentro barattoli burocratico-formali e pseudoteorici sempre meno coerenti con l’oggetto studiato. In questi barattoli i frutti buoni sono più difficili da cogliere delle allusioni di zia Flora e zia Céline nella “Recherche”, e le verità più evidenti emergono con la lentezza farraginosa dei comunicati con cui, a inizio anni Ottanta, i partiti comunisti cominciarono ad ammettere l’esaurimento della spinta propulsiva a est. Ribellarsi a tutto questo è inutile come opporsi ai processi geologici. I non pochi professori eccellenti giocano la loro partita individuale; per il resto lo sguardo adatto è quello della nota satirica, dell’apologo, della parodia. Ecco alcuni di quegli appunti:

  

1. LA STORIA. Chiedo a un contemporaneista perché nel suo corso sulla narrativa del XX secolo ha inserito certi brutti romanzi degli ultimi anni. Imbarazzato, ammette che quei libri non sono granché. Ma poi s’inalbera: “Dovremo pur fare i conti con la storia!”. La storia. Dopo neanche un lustro. Con passaggio immediato dalla grande distribuzione alla cattedra. Ora, poniamo che durante una lezione io afferri un orecchio al caro accademico e glielo torca con energia, senza che lui riesca a liberarsi e senza che nessuno accorra in suo aiuto. Dopo quanti minuti il mio gesto può considerarsi una ineludibile necessità storica?

  

2. BIGNAMI. Un tipico esame sulla letteratura italiana del Novecento: “… data la mutazione antropologica, possiamo dire solo ciò che non siamo, ciò che non vogliamo: fatalmente inetto, l’uomo rappresenta le cose in forme caotiche, perché barocco è il mondo e barocco diventa lui per forza. Né questo ‘mondo’, vero, va inteso come un noumeno: davanti abbiamo solo fenomeni, e infatti cos’è mai la realtà, se non ciò che ciascuno si forgia a suo modo? In sintesi, l’egemonia culturale si conquista con la molteplicità, dato che la grande metafora in cui siamo presi è quella della rete; e visto che la rete rende tutto simultaneo e senza peso, indispensabili saranno la rapidità e la leggerezza…”.

  

3. MAI ALLO SPECCHIO. Nella produzione del “marxismo accademico” – questo ircocervo corporativo – del marxismo si sbandiera proprio ciò che oggi appare marxisticamente inverificabile, cioè una rozza prospettiva rivoluzionaria, mentre si rimuove l’eredità più viva, cioè la critica dell’ideologia: e lo si fa perché i professori o dottorandi sedicenti marxisti, se l’applicassero a se stessi, taglierebbero il ramo su cui siedono. La medesima smentita alle dichiarate volontà demistificatorie affiora dall’uso più tipico di Foucault. Un pensiero in apparenza così esibizionisticamente libertario attira non per caso molte psicologie gregarie. I foucaultiani, e in generale gli ultrà dell’ondata poststrutturalista, adorano i discorsi vertiginosi sui rapporti tra griglie culturali e sistemi di controllo sociale. Però, audaci solo fuori casa, non ci spiegano da quali legami tra sapere e potere dipenda la relativa, trasversale egemonia delle suggestioni di Foucault in parecchie università occidentali.

  

4. SARTI BURGNICH FACCHETTI… I dipartimenti dove si ripete ogni giorno che la biblioteca di Monaldo è esplosa da secoli, e che quindi il canone è plurale, sono gli stessi che sfornano eserciti di tecnocrati dell’umanesimo il cui retroterra di letture è più uniforme di quello degli scolastici medievali: Bachtin, Auerbach, Benjamin, Barthes, Genette, Jameson, Said, Orlando, Moretti… Per capire la patologia degli “studi letterari”, questo sintomo basta e avanza.

  

5. BENJAMIN. L’angelo della storia ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una montagna di tesi, monografie e manuali critico-filosofici, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua interpretazioni idiote di Walter Benjamin e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare la morta verità dei testi e ricomporre un discorso sensato. Ma una tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine universitarie e del citazionismo imbecille sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo humanities, è questa tempesta.

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