Quando Orwell profetizzava l'avvento dell'impero del politicamente corretto

Morto settant’anni fa, l’autore di “1984” continua a essere un insostituibile analista di ogni forma di totalitarismo, scrive Valeurs Actuelles

Questo articolo è stato pubblicato su Un Foglio Internazionale spunti e segnalazioni dalla stampa estera a cura di Giulio Meotti


 

I grandi giornali non si sono dimenticati di celebrare, a settant’anni dalla sua morte, George Orwell, pseudonimo attraverso cui si è fatto conoscere Eric Blair (1903-1950), ma non siamo sicuri che questa commemorazione sia stata all’altezza della sua opera, che da vent’anni a questa parte ha trovato un nuovo slancio” scrive Mathieu Bock-Côté. “Jean-Claude Michéa ha svolto un ruolo importante in questa rinascita, con la pubblicazione, nel 1995, del libro ‘Orwell, anarchiste tory’ (Flammarion), in cui il filosofo francese fa leva sul pensiero orwelliano per muovere una critica severa alla mistica del progresso e denunciare il tradimento del socialismo originario da parte della sinistra ideologica. Michéa ha contribuito in questo modo alla valorizzazione del concetto di common decency, per ricordare l’importanza dei comuni mortali e delle persone ordinarie in un’epoca ossessionata dal culto della “diversità”. Questo concetto si è ritagliato un grande spazio nella vita pubblica, un po’ come la nozione di egemonia culturale di Antonio Gramsci, che oggi è citata da tutte le famiglie politiche (…).

 

Anche una parte della sinistra più giovane si è appropriata di Orwell per trasformarlo in uno stendardo delle proprie lotte descrescitiste, al punto da farne una propria specie protetta e da accusare la ‘destra’ di strumentalizzarlo ogni volta che si rifà a lui. Che Orwell fosse una figura del socialismo è un’evidenza: si richiamava apertamente a esso. La sua vita e la sua opera, si pensi in particolare a dei libri come ‘Senza un soldo a Parigi e Londra’ e ‘La strada di Wigan Pier’, sono indissociabili da un impegno contro la povertà e le ingiustizie che sentiva nel profondo della sua anima. Ma il socialismo di Orwell non assomiglia molto alla dottrina che siamo abituati a chiamare con quel nome ed era molto lontano dalle elucubrazioni dottrinali del marxismo dotto. Il socialismo di Orwell è soprattutto un appello a lottare contro la miseria e le diseguaglianze estreme, che non riteneva in contraddizione con una sana difesa del patriottismo e delle tradizioni di un paese. Ci si diverte inoltre a leggere le descrizioni sarcastiche degli intellettuali di sinistra, che considerava manifestamente i peggiori promotori del suo campo (…). Orwell aveva il coraggio fisico di difendere le proprie idee ed è in nome del socialismo che si impegnerà nel campo repubblicano. Temerario, andrà al fronte senza però degenerare nel fanatismo. Racconterà la sua guerra in ‘Omaggio alla Catalogna’, apparso nel 1938. Quell’esperienza lo segnò per molto tempo. Aveva incontrato sul campo il comunismo staliniano e in particolar modo la sua eccezionale capacità di deformare la realtà e sottometterla a un’operazione di riscrittura ideologica. Da quel momento in poi, la questione del totalitarismo sarà al centro della sua vita e dei suoi ultimi anni. Lo associamo naturalmente a ‘La fattoria degli animali’, apparso nel 1945, ma soprattutto a ‘1984’, che verrà pubblicato nel 1949, un autentico capolavoro che una parte della sinistra orwelliana tratta oggi con un insensato disprezzo. Eppure è a partire da questo libro che Orwell ha lasciato una traccia definitiva nella storia della filosofia politica, decrittando l’esperienza del male radicale al centro del Ventesimo secolo (…).

 

Leggendo ‘1984’, non possiamo che rimanere colpiti dalla somiglianza tra il sistema del totalitarismo e quello che struttura oggi il politicamente corretto, anche se, naturalmente, il suo impero e la sua influenza sono per ora meno estese. C’è tutto: il condizionamento ideologico permanente, la proscrizione di un numero di parole sempre più ampio, l’obbligo di celebrare l’ideologia della diversità anche quando la realtà sconfessa continuamente i suoi presunti successi, la partecipazione a dei rituali di odio pubblico attraverso la denuncia dei polemisti e degli emarginati che contraddicono i fondamenti del regime. L’inversione del significato delle parole è dominante anche nella vita pubblica: e così la democrazia è assimilata al governo dei giudici, lo stato di diritto alla restrizione della libertà d’espressione, l’antirazzismo alla celebrazione delle identità razziali minoritarie e all’odio rivendicato dell’uomo bianco. Allo stesso modo, il regime che predica la diversità non cerca forse di farci dire che 2 + 2 fa 5 quando arriva ad affermare che l’uomo e la donna non sono altro che costruzioni sociali artificiali o che un padre non è per forza di genere maschile? Orwell è morto di tubercolosi nel 1950, all’età di 46 anni (…). Le sue riflessioni sulla neolingua, sulla sorveglianza permanente degli spiriti, sull’interiorizzazione dei vincoli ideologici, sull’istituzionalizzazione delle menzogne, ci permettono di capire ciò che oggi chiamiamo il politicamente corretto”.

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