
XX Congresso del Pcus, 1956 (foto Olycom)
Uffa!
Lavoratori di tutto il mondo, perdonateci!
Così potrebbe intitolarsi il nuovo volume di David Remnick, "La tomba di Lenin", che ricostruisce gli anni del mancato disgelo post staliniano in Urss e l'autodistruzione del comunismo reale
Sì, ne vale davvero la pena comprare il libro appena uscito in Italia (“La tomba di Lenin”, Settecolori, 2025) del giornalista e scrittore americano David Remnick, uno che ha trascorso molti anni in Urss e che l’ha rovistata in lungo e in largo. Vale la pena affrontarne le intense e documentatissime 800 pagine in cui sono raccontati punto per punto gli anni del mancato “disgelo” post staliniano in Urss, i personaggi, le idee e le canagliate di quegli anni. E a meno che ci teniate a farvi del male, ossia rinunciare a capire il come e il perché dell’autodistruzione del comunismo reale, allora no, allora lasciatelo perdere questo libro la cui insegna dovrebbe essere: “Lavoratori di tutto il mondo, perdonateci”.
L’intera società russa ne venne messa a fuoco, quei tanti che volevano salvare i valori e l’immagine del bolscevismo vittorioso nel 1917 e quelli che rischiarono tutto della loro vita e della loro professione pur di attenuarne il disastro. A cominciare da Andrej Dimitrievic Sacharov, il fisico premio Nobel in cui Remnick vede l’audace capintesta del movimento rinnovatore, e con lui Aleksandr Nicolaevic Jakovlev che da consigliere di Michail Gorbacev fu la voce più alta di questo gruppo. Vengono i brividi a leggere i passaggi di un suo celebre discorso degli anni Ottanta: “Oggi che respiriamo l’aria della libertà, sta già diventando difficile ricordare ciò che è accaduto in un passato che è lontano e al tempo stesso non così lontano: ci sono stati centinaia di migliaia di processi brutali, gente giustiziata con un colpo di pistola, persone che si sono suicidate, persone che non sapevano nemmeno di cosa erano accusate, le cui vite sono state distrutte [...]”. E questo mentre in Occidente, Italia ivi compresa, erano tuttora milioni quelli che giuravano e spergiuravano che in Urss ci fosse il paradiso in terra.
La società russa prese a mutare dalla a alla zeta. Cambiava il linguaggio delle conversazioni quotidiane, cambiava il modo di vestire, i più giovani presero ad ascoltare, come in uno stato di ipnosi, i dischi su cui era inciso il rock and roll americano. “Ascolto John Lennon e capisco che cos’è la libertà”, disse qualcuno. Per avere il materiale in cui erano incisi i dischi, quelli che lavoravano nelle cliniche mediche rubavano le radiografie usate. Remnick lo scrive così: “Si ascoltava un brano di Fats Domino che proveniva direttamente dalla radiografia dell’anca rotta di chissà chi dimenticata da tempo. Dicevano che era ‘musica con l’osso’”. Gli ortodossi del comunismo vedevano nei Rolling Stones dei nemici mortali. Il nemico sta cercando di sfruttare la psicologia giovanile, era un’opinione corrente di questi figuri: “Coloro che cadono in questa trappola fanno il gioco degli avversari ideologici che seminano nelle menti immature i semi di uno stile di vita estraneo alla nostra società”. Tanto per non sbagliare, cercarono di bloccare il visto d’ingresso in Urss a Elton John. Quando nel 1990 un giornale russo pubblicò delle notizie che concernevano i gay, la “Pravda” accusò il giornale in questione di voler procurare dei bambini ai pedofili. Era un tempo in cui una donna di trent’anni era costretta a vivere con il marito da cui aveva divorziato cinque anni prima, perché un altro posto dove abitare non ce l’aveva. Bellissime in questo contesto le pagine che Remnick dedica a Solzenicyn e alle sue contraddizioni, diviso com’era tra la sua speranza in una Russia democratica in cui tutte le voci possibili fossero espresse e la nostalgia dei momenti migliori della Russia zarista.
Nel soppesare i testi e le idee di Michail Gorbacev, l’autore non lesina le critiche nei suoi confronti. Lo accusa ripetutamente di essere rimasto a metà strada tra il passato comunista da cui veniva e l’immenso bisogno di democrazia che l’Urss viveva. Su un giornale nato in quegli anni e particolarmente irrispettoso della Russia post staliniana, un giovane giornalista ebbe l’ardire di scrivere che i lettori dei giornali russi fino a quel momento non avevano mai avuto a disposizione “un linguaggio degno di un paese civile”. L’esito di quello scontro, l’avvento di Vladimir Putin e tutto il resto lo avete sotto gli occhi.