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Uffa!
Brancati e quel piccolo gruzzolo di intellettuali coraggiosamente liberali
Da diciassettenne aderì con passione al Pnf, negli anni Trenta lavorò nel quotidiano di Telesio Interlandi, ma più tardi divenne un fustigatore severissimo del fascismo e dei suoi crimini. Questo non lo condusse, però, a omologarsi all'intelligentsia italiana di sinistra, da cui era assediato. La sua storia politica nel volumetto Le due dittature
Se è per questo avevo cominciato a leggere i libri di Vitaliano Brancati prestissimo, né poteva essere diversamente dato che Brancati era uno scrittore catanese e nei miei vent’anni io vivevo a Catania, dove sono nato. Leggevo i suoi racconti e romanzi, e riconoscevo bene gli angoli delle strade catanesi in cui si muovevano i suoi personaggi. Nel Brancati fascistissimo, adorante del Duce – s’era iscritto diciassettenne al Partito nazionale fascista nel 1924 – e che era come in estasi la volta che andò a fargli visita a Palazzo Venezia quando aveva poco più di vent’anni, mi imbattei una ventina d’anni dopo, mentre stavo scrivendo la biografia del più fascista tra i giornalisti italiani, Telesio Interlandi – un libro che sarebbe uscito nel 1991.
Negli anni Trenta Brancati lavorò nel quotidiano romano di Interlandi a via della Mercede, ma più tardi sarebbe divenuto un fustigatore implacabile del fascismo e delle sue volgarità. Di questo suo passaggio da una sponda all’altra dello scacchiere politico italiano parlammo a lungo una sera, in un ristorante milanese in cui ero seduto accanto a Leonardo Sciascia e ad Antonello Trombadori (nato nel 1927). Il quale a sua volta era stato un gappista romano ai tempi di via Rasella e più tardi un comunista accanito e settario, per poi diventare, negli ultimi anni della sua vita, uno che aveva in spregio le premesse culturali e ideologiche su cui si basava la predicazione comunista, e di tanto in tanto quello spregio lo manifestava appieno. Come accadde a Brancati, anche nella sua vita c’erano stati un primo e un secondo tempo, dissimili e contrastanti l’uno dall’altro. Detto in altre parole, Trombadori aveva fatto i conti molto da vicino con le due opposte ideologie che avevano marchiato il Novecento.
Ne scrivo perché è appena uscito per le edizioni Aragno Le due dittature, (con una bella prefazione di Francesco Perfetti), agile volumetto in cui è ben rappresentato il momento in cui Brancati si allontana dalle sue iniziali convinzioni filofasciste e diventa lo scrittore e intellettuale che noi tutti abbiamo amato (noi siciliani in particolar modo). Non che lui da filofascista sia divenuto un adepto del comunismo (in quel momento trionfante nell’intelligentsia italiana), ma dagli intellettuali che prima avevano creduto in Mussolini e che poi iniziarono a stravedere per Stalin era circondato, quasi assediato. Minuscolo era il gruzzolo degli intellettuali che nell’Italia di quel momento si professavano liberali, che rifiutavano di aderire a un’ideologia politica da cui discendesse tutto del loro fare letterario. (Beninteso, non mancava chi, come Orio Vergani, rimproverava aspramente Brancati per aver scritto “i libri più fascisti” della sua generazione e di esser poi diventato un implacabile nemico del fascismo.)
Brancati era uno di questi intellettuali liberali, uno che si beffava di quanti spasimano di avere accanto il maggior numero di “coloro che fanno lo stesso gesto che faccio io, che dicono il sì o il no che dico io”, di quanti cercano a tutti i costi di essere folla, di essere massa. Quegli “stupidi” che cercano di arrivare all’universale lungo una via purchessia, “stupidi” che non vedono l’ora di trovare dei loro “sosia” e che i politici tengono in gran conto quando li vedono “sfilare” con bandiere e tamburi e gridare scemenze, come se fossero chissà quali parole d’ordine volte a migliorare la società. Brancati ne parla con cognizione di causa, perché nei suoi vent’anni aveva, a sua volta, agognato di stare nel bel mezzo di quei cortei di “stupidi” che s’avanzavano forti di bandiere e di tamburi. E’ lui a scriverlo di sé stesso: “Ho fatto da giovane con partecipazione, da adulto con ripugnanza e ostilità, l’esperienza totalitaria di destra”. Di certo quei riti, quelle sfilate, quelle rullate di tamburi, quei cortei di persone che ripetevano tutte lo stesso gesto, non le avrebbe bissate nel dopoguerra italiano e purché avessero un sapore “di sinistra”.