Letizia Battaglia e Franco Zecchin a Palermo, 1987 (Wikimedia Commons) 

uffa!

Le foto di Letizia Battaglia, che fece delle vie di Palermo il suo set a cielo aperto

Giampiero Mughini

“Quelle che non ho scattato mi fanno più male di quelle che ho scattato. Le ho tutte dentro la mia testa”, ha scritto. Come nei delitti Falcone e Borsellino, quando rimase con la macchina abbassata. La sua autobiografia “Mi prendo il mondo ovunque sia”

Per essere io uno che non ha mai scattato una foto in vita sua, casa mia è infestata di foto e di libri che sono come tessuti dalle foto. Arrigo Benedetti, uno dei più grandi creatori di giornali italiani del Novecento, disse una volta che quando prendi in mano un giornale, un articolo è come se lo guardassi, una foto invece la leggi. Quel che lui aveva imparato dal Leo Longanesi che nella Roma dell’Anteguerra aveva fondato e diretto Omnibus, il padre di tutti i settimanali di attualità nell’Italia del secondo Dopoguerra. Nel 1949 Longanesi pubblicherà da Rizzoli “Il mondo cambia” (sottotitolo “1900 Storia di cinquant’anni 1956”), un libro fatto unicamente di foto. Sì, quelle foto che Longanesi aveva trascelto a raccontare il secolo non è che tu le guardassi, le leggevi. 

Fanno data della nostra migliore storia editoriale e culturale libri di foto quali il “Fotocronache” del 1944 di Bruno Munari, “I travestiti” del 1965 di una Lisetta Carmi che ci aveva messo anni e anni a fotografarli nel quartiere genovese dove di loro ce n’erano tanti, il magnificente “New York: The New Art Scene” del 1967 con le foto di un Ugo Mulas che s’era infilato negli studi dei maggiori pittori pop americani pur senza conoscere una parola d’inglese, le “Feste religiose in Sicilia” del 1965 in cui fecero combutta due siciliani d’eccezione, lo scrittore Leonardo Sciascia e il fotografo Fernando Scianna, e di cui conservo la copia che loro mi dedicarono quando ventiquattrenne ne organizzai la presentazione a Catania. A casa mia chiamo “stanza della televisione” quella in cui c’è sì il televisore ma dove innanzitutto sono sacre le pareti tappezzate dalle foto del fior fiore dei fotografi italiani, Carlo Mollino, Gianni Berengo Gardin, Pino Settanni, Sandro Becchetti, Paolo Pellegrin, Mario Dondero, Marco Anelli, Federico Patellani, Umberto Pizzi. 

Il giugno scorso, appena ho saputo della morte del fotografo palermitano Vittorugo Contino (era nato nel 1925) ho subito acquistato in una libreria milanese “Spots & Dots. Ezra Pound in Italy”, il bellissimo libro del 1970 in cui Contino aveva raccolto le foto da lui scattate al tempo della sua frequentazione con il Pound esule in una Venezia che fa da sfondo e da scenografia di quelle foto. Il più delle volte è un Pound ritratto in primissimo piano, i suoi occhi accesi al modo di due torce, le sue labbra da cui non uscirà una parola che sia una. Di quel suo sguardo che ti trafiggeva è stata a sua volta testimone Letizia Battaglia (nata nel 1935), una fotografa nota in tutto il mondo e che non so se definire “siciliana” o “italiana” dato che lei è entrambe le cose. Nel 1962, lei ventisettenne, era stato lo scrittore Emilio Isgrò a dirle che sarebbero andati a far visita a un poeta che da poco viveva a Venezia e di cui fino a quel momento la Battaglia non sapeva nulla. Battaglia lo racconta nella sua recente autobiografia (“Mi prendo il mondo ovunque sia”, Einaudi, 2020): “In un angolo seduto su una poltrona, bellissimo, barba bianca lunga, una specie di Leonardo da Vinci, ci aspettava Ezra Pound. Non mi rivolse la parola durante la nostra breve visita. I nostri sguardi, però, si incrociarono, quello dei suoi occhi vecchi e acutissimi era essenziale e dolente”. 

Dopo una breve esperienza professionale a Milano, la Battaglia venne richiamata a Palermo dal grande Vittorio Nisticò, che le diede da dirigere i servizi fotografici dell’Ora, dove lei restò sino alla morte del quotidiano, nel 1992. C’è che tra gli anni Settanta e Novanta le strade di Palermo costituivano un set fotografico a cielo aperto che non hai bisogno di montare e smontare, da quanto testimoniavano giorno per giorno livelli di violenza quotidiana quali nessun’altra città europea del tempo. Nel solo 1982 ci furono 200 morti ammazzati a Palermo. Per fare buone foto della mattanza tutto stava ad arrivare per tempo. Quando arrestano Leoluca Bagarella, il cognato di Totò Riina, la Battaglia arriva che i poliziotti se lo stanno portando via in manette, gli si piazza davanti con la macchina fotografica, lui le tira un calcio che la scaraventa all’indietro: solo che lei era già riuscita a scattare la foto. Correvamo incessantemente su una Vespa da un omicidio all’altro, ha raccontato la Battaglia. Erano gli anni in cui i corleonesi stavano conquistando Palermo con il sangue, e quel sangue ha come irrorato le fotografie della Battaglia. La mattina del 6 gennaio 1980 lei se ne stava andando per la centralissima via della Libertà quando vide un grappolo di persone che vociferavano attorno a un’auto. Si avvicinò ed ebbe giusto il tempo di far passare la fotocamera attraverso il finestrino dell’auto andato in mille pezzi e scattare una foto al cadavere di Piersanti Mattarella, il presidente della Regione siciliana, mentre lo stavano traendo fuori dalla Fiat 132 su cui era solito andare a messa, e dove lo avevano appena inchiodato i colpi di revolver sparati a bruciapelo da un killer. Quando la Battaglia ha compiuto ottant’anni, Sergio Mattarella le ha mandato un telegramma di auguri. 

Eppure talvolta non era sufficiente arrivare in tempo per scattare foto in bianco e nero di quell’orrore, perché l’animo per farle non bastava. “Le foto che non ho fatto mi fanno più male di quelle che ho fatto. Le ho tutte dentro la mia testa”, scrive la Battaglia. Quando seppe della deflagrazione che aveva mandato in pezzi Giovani Falcone, sua moglie e gli agenti della scorta, lei sull’autostrada della morte non ci volle andare, non li voleva fotografare morti gli uomini che rappresentavano la speranza della Sicilia. Lo stesso, 57 giorni dopo, quando si ritrovò a via D’Amelio, dove la bomba aveva dilaniato Paolo Borsellino e la sua scorta: “Rimasi paralizzata, con la macchina fotografica che mi pendeva dalla testa in giù, vedevo la pancia di Borsellino, brandelli del suo corpo sparsi e restai immobile”.