Un corteo di militanti di estrema sinistra negli anni '70 (Wikimedia commons)

Uffa!

Gli anni feroci e maledetti di Maurice Bignami prima della sua liberazione

Giampiero Mughini

Entrato in clandestinità a Torino nel settembre 1978 per poi diventare, un anno dopo, uno dei dirigenti al vertice di Prima linea. Fino al 1981, fino quella rapina in cui non si sentì "più legittimato a togliere scientemente la vita a qualcuno"

Nato nel 1951 in Francia, dove il padre militante comunista s’era rifugiato per sottrarsi alle grinfie del fascismo, Maurice Bignami era entrato in clandestinità a Torino nel settembre 1978 per poi diventare, nell’estate del 1979, uno dei dirigenti al vertice di Prima linea, l’associazione terrorista che rivaleggiava in spietatezza con le Brigate rosse pur sprezzandone il dogmatismo e il verticismo. La denominazione del gruppo vantava la posizione che nei cortei rosso fuoco di quegli anni aveva il servizio d’ordine, ossia coloro che avanzavano in testa al corteo e che lo proteggevano. Cazzari stramaledetti. Nel corso di un paio d’anni Bignami s’era andato via via disilludendosi che la follia rivoluzionaria avrebbe avuto una presa sul paese reale, da cui sia loro che i brigatisti erano lontani e remoti.

 

Nel febbraio del 1981, nel corso di una rapina politica in cui lui fungeva da “copertura” al gruppo che la stava compiendo, una pallottola di rimbalzo lo ferì a un piede immobilizzandolo. Attrezzato com’era di un mitra e di alcune bombe a mano avrebbe potuto continuare a sfidare la polizia. Si limitò a bloccarne le autovetture in modo da permettere al restante del gruppo di sganciarsi, ma non fece più che questo. Ho letto con ritardo il libro di Bignami che mi era arrivato l’anno scorso (Addio rivoluzione, Rubbettino editore, 2020), e dove lui scrive così di quel momento capitale della sua vita: “Eravamo essenzialmente una comunità di reduci e non mi ritenevo più legittimato (semmai lo fossi stato in precedenza) a togliere scientemente la vita a qualcuno per proteggere la mia. Reduci, ma non nazisti in ritirata. Quando ebbi la certezza che tutto il gruppo si era allontanato, chiamai i poliziotti e appoggiai le armi a terra”. 

 

È quello il momento capitale della sua vita (“una liberazione” lui la chiama) non soltanto perché smette le armi che aveva impugnato tre anni prima nel nome della baggianata del “comunismo” da cui era stata ipnotizzata una parte non esigua della sua generazione, ma perché esattamente da quel momento Bignami comincia a smettere le idee che avevano furiosamente acceso quella follia. E difatti Bignami e altri suoi compagni del vertice di Prima linea saranno negli anni successivi gli artefici di una rivisitazione radicale di quella loro stagione forsennata da cui vennero gli omicidi di alcuni degli uomini migliori della magistratura italiana (il giudice Emilio Alessandrini ucciso il 29 gennaio 1979, il giudice Guido Galli ucciso il 19 marzo 1980), di una rivisitazione culturale e morale che va alle radici dell’intera sequenza infernale che debutta negli anni Sessanta e imperversa sino a buona parte degli Ottanta.

 

Un percorso che per molti di loro, da Sergio Segio a Bignami a Sergio D’Elia, si concluse con la loro iscrizione al Partito radicale nel 1986 e con la loro adesione alla sua filosofia liberale e libertaria. Segio ha scritto un libro bello e leale sulla sua esperienza da capo terrorista, un libro da cui è stato tratto nel 2009 un film di Renato De Maria (La prima linea, con Riccardo Scamarcio e Giovanna Mezzogiorno) che ho elogiato più volte. D’Elia, di cui sono amico, è oggi il responsabile di “Nessuno tocchi Caino”, l’associazione contro la pena di morte cui sono iscritto. Quanto a Bignami, il suo libro di cui mi duole averlo letto con ritardo, è una testimonianza tra le più importanti di quelli che furono in “prima linea” nell’attraversare le fiamme dell’inferno, nel vivere una stagione in cui la società italiana ebbe il triste record tra i paesi occidentali quanto a violenza politica esercitata giorno dopo giorno, ai morti ammazzati di entrambe le parti, agli agguati a uomo, alle sedi di partiti democratici fatte esplodere, ai dirigenti della Fiat assassinati mentre stavano andando al lavoro, a giornalisti uccisi (Walter Tobagi) solo perché il loro assassinio da parte del figlio di un giornalista notorio costituiva un titolo di merito per entrare in un’organizzazione terrorista. Faceva curriculum.

 

Ha ragione Bignami, è incredibile la dose di rimozione di quegli anni maledetti dalla gran parte del discorso pubblico italiano recente. Come non fossero mai accaduti, o come fossero stati un’inezia da niente. Prima di leggere il suo libro, lo avevo incontrato di sfuggita solo una o due volte. Una volta a una cena che D’Elia aveva organizzato per gli aderenti a “Nessuno tocchi Caino”. Non ricordo se lui era seduto al tavolo del suo amico “Sergione D’Elia” (come lo chiama nel libro), né ricordo se ci fossero e dove fossero seduti Francesca Mambro e “Giusva” Fioravanti, che lavorano anch’essi per “Nessuno tocchi Caino”, anch’essi miei amici, anch’essi super testimoni e super protagonisti di quegli anni feroci e maledetti.

 

Tornato in Italia dopo l’infanzia francese, Bignami mosse i suoi primi passi politici nella Bologna effervescente dei Settanta. Viene arrestato una prima volta nel marzo 1977 e resta in carcere sino al novembre di quell’anno. Dal 1970 in poi e per quasi dieci anni sarebbe stato il compagno della Barbara Azzaroni che il 28 febbraio 1979, a 29 anni, cade uccisa in un bar torinese sotto il fuoco della polizia mentre si stava apprestando a un agguato a uomo contro un consigliere comunale del Pci. Quanto al ratto di Aldo Moro, il Bignami militante clandestino reputò da subito che “sarebbe stata una tragedia comunque fosse andata a finire”. “Fin dalle prime ore del sequestro avevo cominciato a percepire lo schiamazzo dei banchi di reclutamento brigatisti. Se le Br avessero liberato Moro, la loro popolarità sarebbe salita alle stelle. […] L’altra opzione, l’uccisione del prigioniero, era una scelta incomprensibile, odiosa e scellerata […] La pantomima del ‘processo’ e della ‘prigione del popolo’, poi, nella sua tetra e moralistica scempiaggine, non era che un artificio di perfido e repellente gusto”.

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