Uffa!

L'orgoglio di ostinarsi a cercare i giornali di carta

Giampiero Mughini

L’edicola è un brandello della tua vita quotidiana, non uno sportello postale. Ma sta sparendo: negli ultimi 15 anni, in Italia, sono passate da 42 mila a 26 mila

Pochi giorni fa sono stato a Pietrasanta per motivi di lavoro. Al ritorno io e Michela siamo partiti presto, a imboccare l’autostrada. Dove è divenuto impossibile fare la cerimonia del mattino per me consueta, ossia l’acquisto dei giornali di carta. Un tempo li trovavi questi giornali nelle stazioni di passaggio lungo l’autostrada. Oggi nisba. Per fortuna siamo arrivati a Roma poco dopo le 13 e quindi era sostenibile la speranza di trovare un’edicola aperta. E difatti dopo un bel po’ ne abbiamo trovato una. Sono sceso dall’auto, ho chiesto i due quotidiani che compro il lunedì (tutti gli altri giorni ne compro cinque), ho pagato. L’edicolante era una ragazza, che non era un’italiana. Gli italiani disdegnano il lavoro da edicolanti, un lavoro massacrante e che nella gran parte dei casi oggi rende poco o pochissimo.

 

 

Qualche giorno fa nella buca delle lettere mi sono arrivate le bozze di un libro di Alessandro Gian Maria Ferri, un edicolante romano entusiasta del suo mestiere di cui conosce come pochi e le difficoltà e le valenze. A cominciare dal fatto che l’esistenza delle edicole è talmente indispensabile al bene comune che durante il lockdown sono rimaste costantemente aperte. Le difficoltà? Immani, se si pensa che l’intero monte edicole di quindici/venti anni fa poteva spartirsi il lucro derivante dalla vendita giornaliera di 6 milioni di copie di quotidiani e che oggi quelle copie si sono ridotte a un milione e mezzo, e vanno a scendere. Tanto che negli ultimi 15 anni le edicole italiane sono passate da 42 mila a 26 mila. Una via crucis che sta peggiorando negli ultimissimi anni. Nel 2019, scrive Gian Maria Ferri, hanno chiuso 4 edicole al giorno. Sei su dieci delle edicole che sopravvivono realizzano utili inferiori a diecimila euro annui e dunque sono a rischio chiusura. 

 

Una larga parte della popolazione italiana andrà trovandosi senza edicole a portata di mano, cioè raggiungibili a piedi. Ancora ancora nelle grandi città o in quartieri come il mio (Porta Portese a Roma), dove di edicole che hanno chiuso ce ne sono state eccome ma altre ne restano aperte. A 200-300 metri da casa mia c’è Monica la quale ogni santo giorno che Dio manda in terra si alza alle cinque, arriva all’edicola alle sei, mette in ordine giornali e riviste che gli arrivano dai vari distributori e già prima delle sette è pronta a darti il giornale o la rivista che vuoi e così fino alle quattordici, quando va a godersi il meritato riposo. Monica è efficientissima. Se esce un numero particolarmente appetitoso di “Linus”, “Rolling Stone” o del “Vinili” di Francesco Coniglio, io la chiamo sul cellulare e le dico di mettermelo da parte. Monica chiudesse, io per prima cosa mi metterei le mani nei capelli dalla disperazione e poi mi adeguerei ad andare a un’edicola che sta innanzi alla Stazione di Trastevere, dove sono in due o tre a darsi il cambio e rimangono aperti tutto il giorno. Questo in un quartiere vitale di una grande città com’è il mio.

 

Ma se un’edicola chiude in un centro di piccole dimensioni dove non ce n’è un’altra – lo scrive Gian Maria Ferri –, la chiusura “si traduce automaticamente nell’impossibilità per i cittadini di acquistare quotidianamente il giornale”, ossia in una perdita culturale secca per il cittadino  e in una riduzione del fatturato “per editori che già non se la passano bene”. Sì, sì, lo so quello che molti di voi stanno mugugnando a voce neppure troppo bassa. Più o meno questo: “Ma perché costui viene a romperci le balle sul dove comprare i giornali di carta? Noi i giornali ce li abbiamo già alle sei del mattino sui nostri cellulari e sui nostri portatili, e ci troviamo benissimo così e ce ne freghiamo altissimamente delle edicole aperte o chiuse che siano”. Sì, lo so che ragionate così ed è per questo che vi reputo appartenere a una razza a me estranea. Che dico estranea? Remota.

 

Il fatto è che un’edicola non è come uno sportello delle poste, al quale affidi una raccomandata nell’indifferenza umana la più assoluta. E’ per sua natura un brandello della tua vita quotidiana. Monica per me non è una “edicolante” e basta, è una persona con la quale commento le dieci copertine tutte uguali dei settimanali dedicati a vip e sciacquette televisive oppure l’umore dei miei due cani. Da quando abito nei dintorni di Porta Portese la sua è l’edicola da me prediletta. Prima di lei la gestiva una quarantenne rimasta vedova perché l’edicolante suo marito era stato travolto da un’auto mentre tornava a casa in moto, e io naturalmente sono andato alla messa che ne celebrava il funerale. A Milano alla stazione di metropolitana adiacente al Quartiere Isola dove Michela aveva comprato una casa – e quello era un tempo in cui per motivi di lavoro andavo a Milano un paio di volte a settimana – c’era un’edicola gestita da un’intera famiglia, padre madre e due figli ventenni, tutti quanto di più affabile e gentile. Adesso non esiste più, nemmeno l’ombra.

 

Rammento vividamente la prima edicola della mia vita, l’edicola catanese di via Umberto del tempo in cui ho cominciato a ruminare la carta dei giornali. Era non esattamente un’edicola ma una stanza sulla strada a pianterreno dietro la quale c’era l’abitazione vera e propria della famigliola che la gestiva. Entravi e ti arrivava alle narici il profumo del sugo che stava sui fornelli. Qualche volta mi offrivano non ricordo più se un arancino o qualcosa del genere. Succedeva spesso che alle dieci, o anche alle dieci e trenta del mattino, i giornali del “settentrione” non fossero ancora arrivati e io ne fremevo. Ci tornavo dopo una mezz’oretta. In un paio di occasioni sono dovuto tornare una seconda volta. Un giornale che aspettavo con particolare ansia era il Paese Sera del venerdì, quello cui era allegato il supplemento libri, i quali libri a loro volta arrivavano a Catania 15 o 20 giorni dopo che erano usciti a Milano e a Roma. 

 

 

E a dire della insostituibilità delle edicole ecco che leggo le anticipazioni del dossier che Linus, lo splendido mensile dovuto alla genialità editoriale di Elisabetta Sgarbi e del maestro Igort, ha dedicato a un personaggio eccezionale non soltanto della musica italiana contemporanea e bensì della musica mondiale contemporanea, il sicilianissimo Franco Battiato che oscilla tra il filosofo Manlio Sgalambro e il compositore tedesco Karlheinz Stockhausen (vinse già nel 1979 il premio a lui intestato). Appena ho avuto sentore di quel gioiellino, che andrò a collocare sullo scaffale dov’è la mia collezione di dischi vintage di Battiato, subito ho telefonato a Monica, la quale mi ha detto quando esattamente il Linus sarebbe arrivato in edicola e dunque quando lo avrei avuto. Una settimana fa. Semmai mi sono stupito che in questa sequenza di ricordi e di immagini prelibate dedicati a Battiato (magnifico il racconto grafico di Massimo Giacon) non ci sia niente che porti la firma del mio amico Giuseppe Pollicelli, recente autore di un pregevole docufilm dedicato a Battiato. Da anni Pollicelli è un predicatore laico della religione “battiatista”, ossia del giudizio pronunziato a voce alta secondo cui il cantautore siciliano è un personaggio monumentale della scena musicale moderna.

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