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Terrazzo 

Siete solo dei poveri modernisti

Giulio Silvano

“Il modernismo diviene un oggetto di fascinazione, che merita più attenzione e ricerca”, scrive Claire Bishop. E anche i mercatini puntano sul modernariato e nessuno riesce più a liberarsi delle madie ottocentesche delle nonne, troppo voluminose per le case dei millennial

Basta sfogliare una rivista di moda per vedere come sedie Wassily, LC4, lampade Arco, poltrone dei coniugi Eames, Butterfly Chair e loro imitazioni continuino a essere perfette per i set fotografici, con aggiunta di candida moquette. C’è qualcosa nel metallo cromato e nella pelle nera che attrae ancora dopo quasi un secolo, e che ha ormai la funzione di un comfort food estetico. Anche sulle copertine quando non si punta su foto di donne di spalle si celebra il modernismo – di recente due uscite Mondadori hanno la Torre Velasca in copertina (un Buzzati degli Oscar e il romanzo di Alice Valeria Oliveri). Strano che nessuno si sia ancora inventato il Torrone Velasca, per Natale, un Toblerone BBPR a forma di palazzone modernista da vendere a 25 euro nello shop della Triennale. Anche se con quel nome una pagina Instagram (@eclissidilana) ci ha fatto un calendario dell’avvento, a forma di Velasca, con dentro le icone del design, dai Castiglioni a Magistretti. I mercatini puntano sul modernariato e nessuno riesce più a liberarsi delle madie ottocentesche delle nonne, troppo voluminose per le case dei millennial.

 

“Oggi vogliono solo Gio Ponti e Ico Parisi”, dicono gli antiquari. E via di mostre e retrospettive e appartamenti a Brooklyn “ispirati a Villa Necchi Campiglio”. L’hype si vede anche nell’arte contemporanea. “Il modernismo diviene un oggetto di fascinazione, che merita più attenzione e ricerca. Ne derivano sentimenti di venerazione e nostalgia”, scrive Claire Bishop nel suo ultimo libro Attenzione disordinata (Johan&Levi). Bishop ricorda che per un momento, negli anni Ottanta del disimpegno, si era cercato di staccarsi dall’utopismo di Le Corbu e compagnia, per poi ricascarci in un’altra forma dopo il crollo sovietico, abbracciando una nuova critica al neoliberismo. “L’idea di utopia, riaggiornata e depoliticizzata, inizia a esercitare un fascino magnetico su artisti e curatori”, dice la storica dell’arte. E in parallelo amare il mid-century diventa segno di eleganza. Wallpaper*, nato nel ’96, diventa la bibbia del modernismo come life-style. E anche i modernismi non-occidentali diventano cool. L’estetica Ddr supera il grunge atlantico. Niemeyer e Lina Bo Bardi diventano icone, i loro edifici set. “Ogni volta che mi imbatto in un nuovo esempio contemporaneo, ho sempre la sensazione di averlo già visto”, scrive Bishop, un déjà-vu che dimostra quanto la nostra memoria sia ormai occupata da tutto quello che scrolliamo, tra Bauhaus fatto con l’Ai, case di Lautner a LA “di nuovo in vendita” e Radio di Brionvega da regalare a Natale.

 

Tutto questo è facilitato dalla “affermazione del rettilineo” del device, dalla rivista allo schermo dell’iPhone – “allora come oggi, la tentazione di riempire la foto, la tela o l’inquadratura con strutture geometriche è irresistibile”. Amiamo il modernismo perché odiamo il neoliberismo? Forse sì. A sfuggire a questa dittatura di essenzialità e funzionalità, resta solo Donald J. Trump, che vorrebbe buttare giù il brutalismo di DC e creare un mondo dove lo stile finto-Luigi XIV abbraccia il greek revival federale in cartongesso, tutto condito da decorazioni d’oro “24 carati” (in realtà comprate di plastica da Home Depot, il loro Leroy Merlin, e spruzzate con vernice dorata).

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