Foto da www.palazzostrozzi.org
Terrazzo
Che arte del Kaws. A Palazzo Strozzi l'americano dialoga con Beato Angelico
Nel cortile del palazzo fiorentino è stata posta la doppia statua dell'artista che per qualche motivo i filistei e il mercato hanno elevato a nuovo Jeff Koons. La domanda è perché i musei non solo si pieghino a questa rozzezza, ma stendano i tappeti rossi per gli skateborder di Jersey City
Le incursioni dell’arte contemporanea nei musei degli antichi maestri – per evitare che diventino, come diceva Marinetti, dei “cimiteri del passato” – sono spesso rinvigorenti. Pensiamo ai video di Bill Viola nelle hall della galleria d’arte di Anversa, tra Rubens e Tiziano, o alle ceramiche di Fontana tra i manufatti etruschi alla fondazione Rovati, ma anche a un Cattelan in un salone sabaudo al castello di Rivoli (il white cube è finito). Un’altra cosa però è salire sul carrozzone neo-pop – ma che in realtà è solo merchandising glorificato o, come dice Francesco Bonami, “populismo artistico” – e mettersi in una casa abbellita con gli old masters dei pezzi overpriced che servono giusto per attirare gli instagrammer. In Italia la nuova opera attira-selfie è la doppia statua di Kaws sistemata nel cortile di palazzo Strozzi, a Firenze, mentre è in corso quella che è forse la più importante mostra dell’anno: Fra Angelico, il monaco artista, apice della pittura cristiana.
Kaws è un “artista” del New Jersey che piace tanto ai rapper di Rozzano (Fedez ne colleziona la versione giocattolo, sistemate tra omini lego oversize, PlayStation e lattine di RedBull) e che per qualche motivo i filistei e il mercato hanno elevato a nuovo Jeff Koons (facendo sembrare l’ex di Cicciolina un sofisticato wharoliano, un Jasper Johns su cui specchiarsi). Il tratto caratteristico di Kaws sono le fattezze da Muppet, e l’uso, a rischio legale, di figure della Tv americana, ma soprattutto gli occhi a forma di croce, ed è curioso che proprio gli occhi di Beato Angelico siano i più espressivi della storia dell’arte. Le nuove giganti statue fiorentine, di legno, dovrebbero rappresentare l’annunciazione per “dialogare” con la mostra: due figure col cellulare in mano, una in ginocchio l’altra in piedi tra le colonne di via Tornabuoni. In un’intervista Kaws dice cose banali come le sue opere – ma è vero che non tutti gli artisti devono essere intellettuali – e sembra proteggersi dietro a quel cancro che è “l’accessibilità” per tutti, marketing travestito da anti-elitismo. Ma è facile prendersela con Kaws, produttore di bamboline decorative da man-cave di chi ha fatto i soldi con X-Factor, così come è facilissimo attaccare gli altri di questa wave giocosissima, creatori pioneristici di pre-Labubu con certificato d’autenticazione, come Takashi Murakami con i suoi fiorellini con sguardo ebete, o quelle versioni italiane da piazze estive versiliane, tipo Giuseppe Veneziano con le sue banane blu.
La profondità del Brainrot nato dallo scrolling, diventato figurina da edicola, in confronto sembra Bruce Nauman. La domanda è perché i musei, i direttori e le direttrici, non solo si pieghino a questa rozzezza, ma stendano i tappeti rossi per gli skateborder di Jersey City. E’ davvero un’esca per i lobotomizzati da social, un invito a far la foto alle statuone di Kaws per poi dar loro in pasto le madonne del ‘400, come si nasconde una pillola in una polpetta per cani? La funzione dei Kaws è solo quella di casetta fatta di dolciumi per poi attirare gli Hansel e Gretel coi selfie stick dentro l’antro rinascimentale dove verranno colpiti dalle tracce rosse del sangue che scorre sulla croce? E’ solo clickbaiting, o c’è dell’altro? E poi se uno è attratto dalla tridimensionalità più che dai tabernacoli, allora che vada al museo archeologico di Firenze, dove è appena arrivata la Chimera di Arezzo, invece che farsi rovinare gli occhi da qualcosa che potrebbe trovare nella hall di un Marriott di Hong Kong.