Massimo Scolari, 2015, Ali dolomitiche, acquerello su carta
Terrazzo
Le ali veneziane di Massimo Scolari
Dopo una giovinezza spesa nell’insegnamento e nella pubblicistica, si è rinchiuso ida qualche parte a Venezia dov’è irraggiungibile se non da pochi fortunati. La sua ultima mostra risale al 1992, il suo ultimo quadro al 2020. Un'esposizione
Ha scelto l’anagramma per la sua ultima mostra Massimo Scolari, “Solca mari mossi” (catalogo Antiga edizioni), presso la Galleria Antonia Jannone di Milano fino a Natale. Il mare agitato del resto è spesso presente nei suoi quadri che, come gran parte dei capolavori dell’architettura moderna, visti da vicino sembrano più piccoli di come ce li immaginavamo. Dopo una giovinezza spesa nell’insegnamento del disegno e nella pubblicistica di architettura al fianco di Aldo Rossi, Scolari si è via via rinchiuso in una torre eburnea da qualche parte a Venezia dov’è irraggiungibile se non da pochi happy few – la sua ultima mostra presso la stessa galleria risale al 1992, il suo ultimo quadro al 2020. Sono solo due i testi ospitati nel catalogo, entrambi di vecchi amici: “Il tuo sguardo è stato il volo e anche il mio”, di Daniele Del Giudice, compagno di viaggio aereo grazie alla comune frequentazione dello splendido aeroporto Nicelli del Lido, vicino all’antico cimitero ebraico e alla casa di Hugo Pratt. Quando Scolari nel 2001 ha ottenuto finalmente il brevetto di volo è definitivamente tramontato il suo interesse verso l’architettura, tanto da dimettersi dall’Università. Le ali aperte su grandi spazi indefiniti erano già da tempo onnipresenti non solo nelle tele, ma anche negli acquerelli, nelle incisioni e nei disegni a penna, i più densi e oscuri. Ali che nel 1991 furono realizzate in legno, come una macchina vitruviana o un giocattolo fuori scala, e posizionate all’ingresso della V Biennale di architettura (fotografate a colori da Luigi Ghirri) per poi essere spostate l’anno dopo sopra un ex edificio industriale a Santa Marta divenuta sede Iuav (fotografate in bianco e nero da Gabriele Basilico).
Ali che, come ha scritto Ennio Concina, studioso dell’Arsenale e delle antiche galee, “sono anche l’analogo di vele, appaiono definibili quali metaforica carpenteria aeronavale”. In molti hanno scritto della sua pittura “che tende all’epifania del mito”: Peter Eisenman, Rafael Moneo, Manfredo Tafuri, Joseph Rykwert, James Ackerman, fra gli altri, ma il catalogo si apre con un testo di Léon Krier, da poco scomparso “architetto e teorico tenacissimo, per cinquant’anni amico sincero e leale”. Una foto li ritrae insieme trentenni a Londra con in testa il modello di uno ieratico progetto comune, Le désespoir de Janus (1976): “In una società che non conosce più progetti per il futuro e si perde in disperato sperpero delle proprie risorse, gli ultimi grandi miti che sopravvivono tenacemente sono quelli della paura”. E infatti era la paura che dominava gli iscritti al suo corso veneziano di disegno, dedicato al tema principe della rappresentazione, le cui riflessioni sono infine confluite in Il disegno obliquo. Una storia dell’antiprospettiva (Marsilio 2005). E paura ci assale leggere ciò che Scolari scrive in esergo, “all’orizzonte si sta addensando una linea oscura definitiva”. Non resta dunque che immaginarlo nella sua torre lagunare dove di recente ha ripreso a suonare il pianoforte, rileggendo forse, ogni tanto, la poesia di Pasternak: “Essere rinomati non sta bene / Non è così che ci si leva in alto /… Si deve invece vivere senza impostura / vivere così da attrarre, in fine, a sé / l’amore dello spazio/udire la chiamata del futuro”.