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Terrazzo

Trump vs Mamdani, la stanza dei (tre) bottoni

Michele Masneri

Il presidente americano e il sindaco newyorchese, due mondi e due stili a confronto. Il primo cittadino a un occhio superficiale sembra vestito esattamente come Trump: abito coordinato monopetto, camicia bianca, cravatta monocroma. In realtà Mamdani veste abiti "slim" e a basso prezzo. Forse adesso Trump lo copierà. 

Tutto si può dire di Trump tranne che non sia un buon comunicatore. E così anche l’episodio 1999 della serie “Trump bullizza leader alla Casa Bianca” ha avuto il suo colpo di scena. Quando venerdì scorso il suo rivale anche antropologico, il neo sindaco di New York  Zohran Mamdani, si è presentato nello Studio Ovale (ovale e dorato, ormai), tutti pensavano che si sarebbe seguito il solito copione, con la bullizzazione del malcapitato di turno, modello Zelensky, invece no. Neanche critiche sull’abito, come invece la volta tremenda a febbraio quando il presidente ucraino fu sbeffeggiato da Trump e la sua ghenga perché non aveva il vestito secondo loro adatto. 

 

Ma “suits” vuol dire sia vestiti che cause, e il neoleletto sindaco della Grande Mela ha annunciato che assumerà 200 nuovi avvocati al comune per contrastare eventuali sfide legali da parte del presidente più attaccabrighe che ci sia mai stato in America. Però il “feud”, la rissa, non c’è stata, anzi. Quando un giornalista ha chiesto a Mamdani di ripetere, davanti a tutti, se era vero che Trump è un fascista, davanti al suo tentennamento il presidente l’ha levato dall’imbarazzo, e ha risposto “ma sì, puoi dirlo, non mi dispiace”,  con l’amabilità di un padre di famiglia. Viviamo in tempi interessanti. Anche per l’abbigliamento. Non si sa se Trump ordirà cause contro la città che pure gli ha dato i natali; ma intanto va detto che il contrasto tra i due leader, anche come abbigliamento, era minimo. Mamdani non solo non indossava una tuta da guerra come Zelensky ma a un occhio superficiale sembrava vestito esattamente come Trump: abito coordinato monopetto, camicia bianca, cravatta monocroma. Trump da parte sua era vestito come sempre, come le vere dive sa infatti che il segreto per risultare “igonigi” è non cambiare mai, per cui abitoni “power dress” monopetto, blu o grigi, camicia bianca, e poi cravattona rossa, più gli immancabili fard e cotonatura (e sotto, tutti i misteri, che abbia pannoloni, cateteri, marchingegni vari, come si rumoreggia, senza prove, in quella sotto-scienza che è la superstizione sul corpo del capo).  

 

Trump non ha fatto commenti sull’abito di Mamdani e forse l’ha apprezzato anche a livello sartoriale. Del resto Mamdani, ha scritto il New York Times qualche settimana fa, prima del fatale incontro, si veste bene, come si possono vestire bene i trenta-quarantenni di oggi.  Si rifornisce infatti da “Suitsupply”, una catenona olandese di vestiti di medio prezzo, né troppo popolare né troppo cara, insomma un vestito costa 5/600 dollari (o euro, c’è anche a Milano).  Dice di possederne quattro o cinque, di abiti di questo marchio, tra cui quello della notte della vittoria elettorale, blu, che “uso troppo spesso, ma cerco di ravvivare con delle cravatte sottili”, ha detto. Cravatta sottile e vestito pure sottile, lo “slender suit” di Mamdani secondo il Nyt “identifica il sindaco come membro di una fascia d’età che è appena riuscita a entrare nella politica americana e che finora non aveva varcato la soglia del municipio”. E manco dei grandi sarti (seguono reprimende e rampogne di artigiani newyorchesi, secondo cui “per questa generazione l’abito è un mezzo e non un fine”, insomma si è persa la passione del sarto, be’, sì, forse anche perché un abito sartoriale che da noi parte da duemila euro, ormai nella New York iperinflazionata costerà come una Volvo. Magari poi Mamdani ce li ha pure ma non sarebbe stato molto scaltro a indossarli). Comunque. “I completi di Suitsupply sono più per, tipo, i ragazzi giovani”, dice al giornale Sam Wazin, un sarto della 57ª strada, descrivendo l’aspetto come moderno e non troppo stretto. “Non dirò che sia un brutto completo”, ha aggiunto. “E’ un bel completo”. Quelli di Mamdani sono  vestiti dal taglio non troppo “slim”, non insomma i famigerati “gambastretta” da agente immobiliare, o quelli con le giacchette che arrivano sopra la vita tipo bolerino. 

 

Ma c’è di più. Nel podcast Throwing Fits, Mamdani ha raccontato che in passato indossava un completo grigio in cashmere, acquistato per 100 dollari “in una fiera di strada completamente illegale sulla 30th Avenue”. Pure l’usato! Insomma questo sindaco ha l’approccio al vestiario tipico millennial (non sappiamo se compra e vende anche su Vinted ma è possibile). Inizialmente non indossava nemmeno abiti ma quando la campagna elettorale è entrata nel vivo ha cominciato a vestirsi da adulto (al contrario di Cuomo che ha fatto il giovanilista rinunciando all’abito e alla cravatta). Mamdani è stato anche fotografato con un completo Ludlow in “tweed di lana inglese” di J. Crew, altro brand specializzato in vestiti casual e abbastanza smilzi. Secondo il Times, Mamdani si ispirerebbe al vecchio sindaco di Ny degli anni 60/70 John V. Lindsay famoso per il suo stile “slim”. E Trump? Dopo l’incontro alla Casa Bianca è stato avvistato dalla Fox con una inusuale sciarpa rossa mai indossata prima, ma amata invece dal giovane Bertinotti newyorchese. Correrà all’inseguimento del socialista sartoriale? Ci manca solo l’Arancione attillato.


E non sono del tutto facezie. Perché in America il vestito, come qualunque cosa riguardi il presidente, è di fondamentale importanza, per cui anche l’abito. Ricordiamo tutti il “tan suit”, il vestito cammello che sconvolse gli americani dieci anni fa. Allora il presidente era Obama, e  il 28 agosto 2014 il primo presidente afroamericano d’America  indossò  il famigerato abito di un colore ritenuto esotico e frivolo mentre annunciava qualcosa su Isis e Siria, qualcosa che nessuno si ricorda perché tutti si ricordano invece la polemica sul vestito cammello. I giornalisti della Fox si dissero “scioccati”. “Non puoi dichiarare guerra con un abito come quello”, twittò il giornalista del Wall Street Journal  Damian Paletta (erano proprio altri tempi, su Twitter c’erano umani e non bot russi, oggi poi alla Casa Bianca è di rigore il berretto da baseball e c’è anche un angolo di gadget con tutti i berretti con le varie scritte). Ma era appunto un’altra epoca: dissero che il tan suit era  “unpresidential”, nacque l’hashtag #suitgate e “Yes, we tan” (niente meme, non erano ancora nati). Tra l’altro il “tan suit” portò sfiga pure a Kamala Harris, che inaugurò l’anno scorso la convention democratica di Chicago in fretta e furia, dopo l’abbandono di Biden, proprio con un tailleur cammello (di Chloé, marchio che ama. Capite, avremmo avuto una presidentessa pure vestita bene, e non solo non aspirante dittatrice russofila). Mamdani invece non avrà di questi problemi, non essendo nato in America non potrà candidarsi alla Casa Bianca (se ci sarà ancora l’America, e comunque potrà stare comodo nel suo vestito stretto quanto vorrà. Forse, anche, perfino color cammello). 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).