FOTO LaPresse

Terrazzo

Dal Louvre a Trump, l'ossessione per i gioielli della corona

Michele Masneri

Certi gioielli sono sempre un guaio. Svelano le debolezze della République  e la mitomania del presidente americano. Mentre i Savoia dopo ottant’anni sono ancora lì a litigarseli con lo stato 

Sta corona po’ esse piuma e po’ esse fero.  Da una parte il furto di gioielli al Louvre è un micidiale presagio sullo  stato di salute della République, ormai più indebitata e incasinata di noi (se gli italiani sono dei francesi di buon umore, come sosteneva Cocteau, oggi sarebbero dei francesi coi conti quasi in ordine). Ma il furto di gioielli ha sempre quel sapore romanzesco alla Lupin o alla Operazione San Gennaro. E qui nel furto “del secolo” si è scassata, cadendo, la leggendaria corona dell’imperatrice Eugenia.

 

Ma invece non è caduta, e dunque se la son portata, la tiara, della medesima imperatrice: forse, dicono gli esperti, il pezzo più prezioso di tutti. Composta di 200 perle e quasi 2.000 diamanti,  era stata realizzata da Alexandre-Gabriel Lemonnier nel 1853 come dono da parte del marito Napoleone III. Dopo l’esilio della coppia nel 1870, la tiara rimase in Francia e fu venduta nel 1887 al principe Albert von Thurn und Taxis e rimase della prosapia tedesca già inventrice dei corrieri postali e delle vetture pubbliche (che si chiamano appunto “taxi” in loro onore) fino al 1992 quando fu venduta da Gloria  Thurn und Taxis (che l’aveva indossata al suo matrimonio) all’associazione “Friends of the Louvre” (e lì, coi Thurn und Taxis, altri guai per teste coronate, con la principessona già nota come “TNT”, per l’esplosività, oggi molto conservatrice e antigender e spessissimo a Roma, che la settimana scorsa ha visto incendiata la dépendance del suo castello di Ratisbona in Baviera, col rogo rivendicato da milizie “antifa”). Che tempi, contessa! Anzi, principessa. Ma con l’Eugenia, invece, giù reminiscenze proustiane, con la vecchia imperatrice citata nella “Recherche”, ma anche a km zero, con  Giuseppe Tomasi di Lampedusa autore del “Gattopardo” che ricordava un micidiale saluto antelucano  quando, da bambino, era stato fatto svegliare all’alba. Per omaggiare l’anziana  sovrana ospite dei Florio a Favignana in una tappa di una crociera reale presso la dinastia del marsala. Ma adesso chissà chi sarà il mandante del furto con destrezza, se qualche oligarca burino magari mandato da Putin per fiaccare il già fiaccato ésprit francese, o qualche “tech bro” siliconvallico che voglia surclassare i brillocchi che Jeff Bezos offre alla popputa neosposa. 


Ma i gioielli della corona però sono sempre un guaio. I Savoia dopo ottant’anni sono ancora lì a litigarseli  con lo stato; a maggio avevano perso la causa contro la Banca d’Italia, che li custodisce in un pastrocchio costituzionale che va avanti dal  5 giugno 1946, (non molto più della durata media di una causa in Italia), quando tre giorni dopo il referendum il ministro della Real Casa dal fantastico nome di Falcone Lucifero li consegnò fiducioso di riprenderli presto alla Banca centrale della neonata repubblica. Il tribunale di Roma ha stabilito però che non si trattava di oggetti personali ma di “gioie di dotazione della Corona”: dunque, venuta meno la monarchia, non c’era motivo  perché rimanessero alla famiglia. Ma ora i discendenti (strano) fanno ricorso e li vogliono indietro, o chiedono che almeno vengano esposti (intanto non si sa che fine abbiano fatto questi gioielli, nessuno li ha mai visti). 

 

Si capisce anche il timore delle poche case regnanti ancora, di non regnare più: perché oltre all’onore perduto e all’angoscia di doversi mettere a lavorare si perde tutto il cucuzzaro, case castelli e proprio gioielli: e siamo subito a “The crown”, la fortunata serie Netflix dove la Regina Elisabetta deve sopportare per sei stagioni una serie infinita di guai, tra cui una famiglia di depressi, inetti, sporcaccioni, proprio per salvare the crown e il cucuzzaro. Sporcaccioni come Andrea duca di York non più duca di York, privato ultimamente del suo titolo in quanto nuovamente tirato in ballo nella questione del pedofilo Epstein (anche la moglie perderà il titolo, e forse sarà contenta, in quanto soprannominata “duchessa di Pork” per le famose foto con un tizio che le succhiava un alluce, molti anni fa. Non è chiaro cosa succederà invece ai titoli delle figlie, una delle quali è sposata con un italiano).  

 

Pare che Andrea, pork o non pork, fosse peraltro il figlio preferito della regina (ecco a cosa porta il troppo amore materno). Ma una delle rarissime volte in cui Elisabetta fu vista arrabbiarsi in pubblico non fu con lui, bensì  nel 2007  quando Annie Leibovitz, prima fotografa di nazionalità americana a ricevere il grande onore di riprendere un sovrano inglese, ma non conscia del grande onore,  le chiese se per favore poteva togliersi dalla testa quel copricapo, poichè stava  meglio senza, così era “troppo”, “too dressy”, e la regina giustamente si era imbufalita, perché quella cosa lì pesante in testa era un po’ l’inizio e la fine di tutto (però, negli ultimi anni, in una rara intervista, disse invece che era talmente pesante, quella roba lì in testa, che se non facevi attenzione ti rompeva l’osso del collo).

Metafora? Chissà. Uno che la metterebbe volentieri nonostante tutto è invece Donald Trump,  che nei suoi meme e video da adolescente problematico si rappresenta volentieri proprio con una corona dorata, come nell’ultimo, in cui da un caccia militare sgancia granate sui manifestanti. Un po’ Ubu Roi, un po’ Re Lear, un po’ mitomane, la corona che indossa non ha gioielli, e le bombe  sono invece di cacca (noblesse oblige, e chissà anche lui che misteriosi complessi, con la mamma che aveva la sua stessa acconciatura, peraltro, vabbè).  
 

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).