
Jacopo Benassi (Getty)
terrazzo
Benassi, arrivato ma libero. A Genova la mostra dell'artista spezzino
A Palazzo Ducale il fotografo, underground punk della provincia, toglie le foto dalle pareti, si crea le sue cornici, accumula e lega i vari scatti, fa trasformare la cosetta pulita in un’opera tridimensionale, in una bolgia di diversi materiali. E trasforma le sue opere in barricate per un nuovo ’68
"Non dite che sono arrivato”, dice il fotografo e artista cinquantacinquenne Jacopo Benassi. “Arrivato è chi fa centro al Superenalotto e vince 5 milioni in una botta”. Ma cosa succede quando il grande artista underground punk della provincia, il performer nudo dei collettivi, troll gentile e barbuto della controcultura spezzina, viene celebrato nel Palazzo Ducale di Genova? Le sciure aristò-marinare in abiti floreali scese da Castelletto e Albaro possono davvero cogliere l’anima di quest’artista che fa le performance nudo suonando la chitarra? Le croniste di Milano Finanza che arrivano in Frecciarossa cosa pensano dei buchi nella maglietta nera di Benassi con scritto Anarchy & Peace? Il ciclo dell’arte, e del suo mercato, è crudele. Si rischia di diventare dei giullari dei brand, si rischia di finire a fare le cose con la moda, malattia milanese, o a sentirsi, appunto, arrivati. Si finisce per non sperimentare più e ci si lascia coccolare. Ma Jacopo Benassi è libero, o così recita il titolo della mostra genovese, curata da Francesco Zanot. “Jacopo Benassi Libero!”: libero da quello che l’ha fatto conoscere, cioè la fotografia, e che l’ha portato pure a fare un libro con Paolo Sorrentino. Mentre inaugura la sua mostra, Benassi ringrazia e saluta e poi esce sulla piazza con la bomboletta e scrive su dei pannelli sotto le impalcature: “Benassi lotta contro la condanna della fotografia”. E poi si gira e dice: “Non sono stato io”, come un Bart Simpson del levante ligure. La sua arte nasce per disturbare. “Qualcuno parli male della mostra, per favore”, dice l’artista. “Ormai è sempre tutto bellissimo”.
Nella mostra il fotografo toglie le foto dalle pareti, si crea le sue cornici, accumula e lega i vari scatti, fa trasformare la cosetta pulita in un’opera tridimensionale, in una bolgia di diversi materiali, gioca con la creta, tira fuori il pennello, lega tutto con le cinghie, trasforma le sue opere in barricate per un nuovo ’68, con la chela dell’aragosta sulla bandiera retta da un bastone di rovo pienissimo di spine. E così tutti sovrapposti e accumulati i soggetti: le sue ciabatte, i cani, i volti, i peli, le mucche, i piedi, le farfalle, le antichità di marmo, i teschi, e poi le piante notturne, le piante mediterranee paparazzate, agavi colpite dal suo flash-proiettile. Benassi, ronin del magnesio, lui che scatta solo col flash, appunto, e dice che lo fa “velocissimo, come un reporter di guerra, come se ci fosse un cecchino pronto a farmi fuori”. Cornici girate e non si sa se dietro c’è davvero “Autoritratto mentre lecco un piede a F”, o “Autoritratto mentre piango”. Un tunnel di cartongesso che porta ai bagni – dove si appendono alcune opere – racconta il suo passato e il suo giro di matterelli dell’arte contemporanea, con un autoritratto che è creta infilata in una calza Adidas e poi in una di quelle ciabatte di plastica a righe della PlayStation, così anni 90. “Perché tutte quelle ciabatte?”, chiede qualcuno. “Sono la mia infanzia quel cazzo di oggetto”. Sotto vetro una copia vintage di “Critica e lotta” di Péter Weiss, e poi un mocio con secchio coperti dipinti d’oro per ringraziare le donne delle pulizie. “Volevo fotografare il cielo, ma col flash non si può, e allora l’ho dipinto”.