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Terrazzo

Palazzo Fortuny ridotto a casa museo

Giacomo Giossi

La sua innegabile bellezza è stata in buona parte scacciato da un restauro: senza la polvere e quel velo capace d’ingannare il presente portandolo direttamente nelle ombre del passato, ora appare incapace di dialogare con il contemporaneo

Palazzo Fortuny ridotto disgraziatamente ormai da qualche anno a casa museo con tanto di ricostruzione degli ambienti famigliari, tutti rigorosamente circondati da corde in velluto rosso come fossero tante scenette da museo delle cere, fatica non solo a mostrare pienamente la propria meravigliosa bellezza, ma anche a rivelare l’incredibile genialità del suo proprietario originario. Mariano Fortuny, di origine spagnola, nato a Granada e cresciuto a Parigi, ma come si dice in questi casi, maturato a Venezia diede infatti alle arti applicate, in particolare alla stampa dei tessuti per cui è famoso in tutto il mondo (come recita una didascalia), un ruolo centrale e dal carattere profondamente innovativo. Fortuny fu un pittore, scenografo, designer, stilista e inventore, come se Luca Guadagnino si fosse fuso in Francesco Vezzoli dando corpo a un uomo dalla genialità estroflessa, ironica, sorprendente e immaginifica.

Tuttavia nonostante l’innegabile bellezza del palazzo veneziano, il fascino è stato in buona parte scacciato da un restauro o rigenerazione come piace dire oggi che ha non solo addomesticato gli ambienti, ma li ha pure depurati da quel cigolio e da quelle minime (e non di rado inquietanti) fratture polverose che ne definiscono l’atmosfera: quella liquida fluidità che è parte integrante e assoluta del carattere veneziano, sia che si tratti di palazzi, figure storiche o di borbottanti residenti.

Senza quella polvere, quel velo capace d’ingannare il presente portandolo direttamente nelle ombre del passato, il Palazzo appare incapace di dialogare con il contemporaneo a differenza di prima, ridotto ad una attuale e presente rappresentazione di ciò che fu, fatica ad accogliere la differenza che sta in un corpo vivo, salvo escludere qualche ormai sparuto turista che vaga tra i suoi saloni tanto impressionato quanto perplesso. All’ingresso, nel grande atrio celato dal bookshop che poi corrisponde all’ultima sala di un percorso museale strettamente obbligato, ma quanto meno ricco di informazioni (cosa non scontata nei musei italiani e un merito per il Fortuny) ecco che si palesano le grandi tele del giovane pittore spagnolo Alberto Rodríguez Serrano. La mostra offre un susseguirsi di tori e vedute veneziane in una rappresentazione della forza della lotta come degli spazi che ricorda più che altro la hall di un grande albergo e nemmeno di quelli di lusso, ma di certo alla moda.

L’esito è infatti quello di un presente attuale che vede Venezia pensata come sfondo di un desiderio a tratti insperato e a tratti invece decadente. L’uso pastoso del colore non offre intensità, ma un’idea scenografica che contrasta anche grazie all’uso dell’oro con il nero di una sala che cerca disperatamente l’eleganza perduta. Qui nulla infatti è fuori posto, dal palazzo al giovane artista fino ai cliché ispano veneziani. Una volta fuori la luce e l’umidità impongono una realtà anche letteraria in una ventosa quanto accaldata giornata veneziana e si scivola via dai turisti come Gustav schenbach in cerca di un disperato desiderio di vita. 
 

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