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Terrazzo

Trump si riscopre arredatore, con la mania dell'oro

Michele Masneri

“E’ l’Ufficio d’oro per l’epoca d’oro. The Golden Office for the Golden Age”, ha detto al Wall Street Journal la portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt. A sovrintendere a questa nuova epoca d’oro c’è anche un orafo presidenziale, un Benvenuto Cellini di Mar-a-Lago: si chiama John Icart

Chissà cos’avrà pensato Trump della spoglia camera da letto di Papa Francesco in Santa Marta. Trump infatti incurante delle guerre e dei dazi è in piena fase arredatore. La sua passione, come sappiamo, non è il minimalismo giapponese né il brutalismo nordeuropeo, bensì l’oro. “Oro oro oro, quanto oro ti darei”, cantava il poeta, e certo è nota la passione di dittatori e autocrati per il biondo metallo. Dalla collezione di pistole d’oro di Gheddafi al bagno 24 carati di Saddam Hussein, mentre Putin è più saggio e di lingotti ha riempito le riserve russe,  rivalutate di oltre il 70 per cento dal 2022, arma che gli consente di sopravvivere alle sanzioni; l’oro continua infatti la sua cavalcata. La settimana scorsa ha superato per la prima volta i 3500 dollari l’oncia, segno dell’instabilità e dell’incertezza globali: e materia d’elezione di Trump. 


Lui non ha mai fatto mistero di amarlo. Ogni giorno si alza sapendo di doversi inventare una cafonata 18 carati. Ecco la “Gold card”, un visto speciale per ricconi che, investendo 5 milioni di dollari, si potranno comprare la cittadinanza (qualcosa del genere esisteva già, ma Trump ha creato la carta, e l’ha  voluta d’oro). Ma già c’erano i finti lingottini da anni in vendita sui vari siti online della galassia trumpiana (oggi esiste anche un adesivo, di un lingotto, a 5 dollari, e addirittura un salvadanaio a forma di lingotto, 24 dollari). E già  negli anni delle nostre adolescenze tra il Moma e la Frick Collection una visita  a New York non era completa senza la Trump Tower con le sue lettere d’oro, attrazione turistica trash dello svalvolato Casamonica-style  che certo mai ci saremmo aspettati un giorno presidente (e per ben due volte). 

 

Ma adesso, ricco e spietato come il conte di Montecristo (ma più kitsch), Trump non ha più freni: ha varato un restyling nella Casa Bianca  diventando anche first lady di se stesso. Ha aggiunto infatti nello Studio Ovale dei putti provenienti da Mar-a-Lago, una replica della coppa del mondo di calcio Fifa, e lo stemma inventato del suo casato che campeggia già sulle magliette dei suoi club (sarebbe interessante sentire degli esperti di araldica). Vi sono poi: un ritratto di Reagan, la prima pagina del New York Post con la famosa foto dell’attentato, in cornici doratissime. Vari specchi che riflettono oro, altro oro, i pennarelloni neri (con suo nome dorato sopra) con cui firma gli ordini esecutivi. Pare che volesse anche un grande lampadario d’oro, ma l’idea è stata accantonata perché troppo pesante, e rischia di far crollare il controsoffitto. “E’ l’Ufficio d’oro per l’epoca d’oro. The Golden Office for the Golden Age”, ha detto al Wall Street Journal la portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt. A sovrintendere a questa nuova epoca d’oro c’è anche un orafo presidenziale, un Benvenuto Cellini di Mar-a-Lago:  si chiama John Icart ed è un mobiliere della Florida che viaggia abitualmente col presidente. 

 

Il Washington Post dell’amico Bezos, che ha distrutto la reputazione del suo quotidiano per inchinarsi alla satrapia e comincia a pensare che non sia stata una buona idea con le azioni Amazon che hanno perso il 15 per cento in tre mesi, definisce ora Trump “The new Sun King”, il nuovo Re Sole, anche se in inglese la dicitura ricorda anche le satrapie nordcoreane dei vari Kim Jong Il (con cui non a caso Trump si trova bene, anche esteticamente). Il giornale parla  di “rococò trumpiano” che però è da fumetto:  Trump infatti più che Luigi XVI è  Zio Paperone, però con la cazzimma di un Rockerduck, sempre incarognito e angoscioso. Gli manca la botola per gli Zelensky e gli ospiti poco graditi. Intanto nella sinistra crescita dell’oro sembra esserci un indicatore proprio dell’angoscia globale. Tutti stanno istericamente celebrando i cent’anni del Grande Gatsby, HBO sta girando la terza stagione di “The Gilded Age”, sui ricconi newyorchesi d’antan, mentre il mondo dorato di Rockerduck-Trump  si autogenera. Più Trump fa Trump, più l’oro sale a causa dell’instabilità, più lui si circonda di patacche dorate. Come finirà? In Gatsby l’oro è simbolo di facile ricchezza, la Rolls-Royce gialla color dell’oro (come quella di Goldfinger) seminerà morte, e anche Daisy è una “Golden girl”, mentre sta venendo giù tutto con la grande Depressione degli anni Trenta (periodo in cui l’oro era ai massimi, come i Settanta delle crisi petrolifere, i Novanta della fine del blocco sovietico, il post 2008  dei mutui ecc. ).  Ma forse la condanna aurea sta  nei geni. Il nonno di Trump, Frederick, tedesco bavarese, emigrò in America nel 1885 e puntò sulle miniere d’oro del Klondike (come Zio Paperone), dove aprì un ristorante e un bordello per minatori. 

 

Ora Trump-Rockerduck va avanti, nella sua  “golden age” (per lui lo è di certo), e anche gli ospiti sanno cosa portare: il primo ministro giapponese Shigeru Ishiba gli ha regalato un copricapo da samurai d’oro.  Quello israeliano Benjamin Netanyahu un cercapersone d’oro massiccio, bizzarro dono che ricordava  l’attacco dell’anno scorso contro Hezbollah, quando furono fatti esplodere all’unisono centinaia di apparecchi sparsi per il mondo. Ora pare che Trump abbia commissionato i ritratti suo e del vicepresidente Vance bordati d’oro, perché “riflette meglio la luce”. Ormai con queste “photo opportunity” coi presidenti umiliati o coccolati tra vasi e altri ciaffi dorati sul caminetto, pare d’essere tra Liberace e una vecchia zia brianzola fotografata su un AD degli anni Ottanta. Il famoso caminetto, tra l’altro, nell’èra Biden era ricoperto da tralci vegetali, ora invece ha due bei fregi dorati orizzontali che in verticale compaiono pure sulla tappezzeria (siamo tra un Versace Home sotto Lsd e un dittatore turcmeno da Home Depot). 

 

Come andrà a finire? Il problema è che l’oro lo butti dalla porta e ti rientra dalla finestra, come nella sepoltura proletaria di Papa Francesco in Santa Maria Maggiore: molta semplicità, ma poi ci si ritrova vicino a Paolina Borghese e col soffitto in lamina d’oro coi primi lingotti delle Americhe, dono di Isabella di Spagna. E siamo del resto in piena via Merulana, quella del “palazzo degli ori” di gaddiana memoria, per non parlare della “porta alchemica” di piazza Vittorio Emanuele, dove secondo la leggenda si poteva trasformare l’erba in oro: se lo sa Trump spiana tutto e ci fa un golf club coi fondi del Giubileo (non diamo idee, ma  forse non sarebbe neanche male, vabbè)
  
 

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).