Terrazzo

Angelo Mangiarotti, il gran rimosso del design novecentesco

Michele Masneri

La Triennale di Milano prosegue l’opera meritoria delle esposizioni “biografiche”  dei dioscuri milanesi, o milanesizzati, del design, da Enzo Mari a Ettore Sottsass ad Achille Castiglioni.

Finalmente ecco una gran mostra su Angelo Mangiarotti. La Triennale di Milano prosegue l’opera meritoria delle esposizioni “biografiche”  dei dioscuri milanesi, o milanesizzati, del design, da Enzo Mari a Ettore Sottsass ad Achille Castiglioni. A questi nomi si aggiuge finalmente Mangiarotti, gran rimosso novecentesco, spesso considerato “minore”,  relegato a progettista di mobili sinuosi per collezionisti fru fru (del resto, è lo stesso destino toccato a tanti grandi, Gio Ponti in testa, si sa che quando il genio è poliedrico e non fa gruppo in Italia è destinato al successo postumo, se va bene).

 

Adesso invece la Triennale -  orfana di Lorenza Baroncelli, fresca direttrice per l’Architettura del nuovo Maxxi romano giuliano (nel senso di diretto da Alessandro Giuli) -  ridà a Mangiarotti l’onore perduto.  Nato nel 1921, si diploma – orrore – all’istituto tecnico, e poi si iscrive al Politecnico, ma nel ‘43 fugge in Svizzera come tanti per evitare la demenziale Salò. Nel campus di Losanna -Vevey riparano studenti come Alberto Rosselli, Ernesto Nathan Rogers, Lodovico Magistretti non ancora "Vico". Poi Milano, e poi l’America. Dal 1952 al 1954 è visiting professor all’Institute of Design dell’Illinois Institute of Technology, al centro della architecture royalty statunitense, incontrando e stringendo amicizia con  i colossali Frank Lloyd Wright, Walter Gropius, Mies van der Rohe e Konrad Wachsmann. Poi torna alla Milano del boom: apre studio insieme a Bruno Morassutti come lui reduce dall’America (addirittura apprendista da Wright). Sgravati dalle ideologie farlocche italiane e pronti ad abbracciare il meglio che la tecnica offre sono naturalmente impediti dalle italianità. Il prefabbricato fa paura (il prefabbricato ideale invece per costruzioni modulari e in pezzi da assemblare poeticamente). E la poliedricità fa alzare il sopracciglio.

 

Invece, la multiscalarità diventa il segno anzi la  “signature” di Mangiarotti; Insieme fanno mobili componibili, macchine da cucire, case,  sempre sfiorando il Compasso, che lui otterrà solo nel ‘94 alla carriera. Tra architettura, disegno industriale fino quasi alla scultura, Mangiarotti "tira fuori" la materia in tutte le scale, come uno chef modernissimo che mette in risalto le materie prime freschissime forzandone il limite. Non per niente a un certo punto riceverà una laurea honoris causa in Ingegneria: i progetti “fuori” sono almeno importanti come quelli “dentro”; tante stazioni ferroviarie di Milano (Porta Venezia, Rogoredo, Certosa, Repubblica) e tante case soprattutto a Milano fatte insieme a Morassutti (tra cui quella cilindrica a San Siro e il bosco verticale pre-Boeri in via Quadronno). E la pazzesca chiesa a Baranzate (nome sommamente labranchiano) e la tomba Romanelli al cimitero di Udine (con porta di Lucio Fontana) oggi valida per gite cimiteriali alternative alla Brion  ormai da overtourism.

 

Disegnatore instancabile, aveva sempre le mani sporche di grafite; bellissimi i disegni in mostra, anche per le formidabili poltroncine, e i grandi tavoli specchiati molto Renzo Piano (che aleggia fantasmatico tra amore per il giunto e certe strutture colorate esterne che fanno molto Beaubourg, anche se collocate non a Parigi bensì nel fatal Nord-Est delle fabbrichette). 

 

Percepito come solitario e schivo, in realtà in contatto con e venerato da grandi maestri del prestigioso estero. Il suo centro è lo snodo, il giunto.  Secondo Mario Botta “la poetica architettonica di Mangiarotti se la dovessimo sintetizzare in un’immagine potremmo ritrovarla là dove, nella costruzione, vi è l’incastro fra il pilastro portante verticale e la travatura orizzontale, declinata dall’architetto in decine di invenzioni una più bella e intelligente dell’altra. Gli snodi strutturali di Mangiarotti sono delle vere e proprie sculture”. Lo snodo può essere quello che “tiene su” enormi strutture come il padiglione Iri della Fiera del Mare di Genova (1962-1963), forse il manufatto d’acciaio più sexy dell’architettura italiana,  o i sinuosi tavolini di marmo della serie Eros, oppure ancora le maglie di luce della lampada “Giogali” o i blocchi dello stabilimento Snaidero a Majano di Udine, col metallo traforato alla Jean Prouvé.


La mostra in Triennale certifica la Mangiarotti-mania, basta guardare i costosi Eros, che oggi sono tornati al centro dell’attenzione e rispuntano tra negozi, servizi di moda e aste. Collezionismo e fandom a tutti i livelli  (Francesco Vezzoli ne colleziona i mobili, Martino Gamper ha appena comprato una sua casa sul lago di Garda) per  quegli incastri lussuriosi tra pezzi di marmo, senza giunti meccanici ma solo con la forza di gravità. Però appunto Mangiarotti agli inizi non se lo filava nessuno, soprattutto non la Casta architettonica. Piace a Domus (ma non ai tradizionalisti di Casabella) che al trentenne promettente architetto dedica le parole di Lisa Ponti, con un progetto “fantastico” di un bar sospeso, comprese le sue 140 composizioni possibili, idea che racchiude tutta la sua estetica e poetica (cominciare con un bar!). Per Mangiarotti non importa la scala, size doesnt’ matter, importano piuttosto il meccanismo e le variazioni sul tema. E il “fatto a macchina” mentre tanti si rifugiano nell’alto artigianato. Rogers e Zevi lo aborrono . Ma per loro il grattacielo Pirelli, del resto, era solo “un mobile ingrandito". 
 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).