Terrazzo

Per capire il destino del M5s bastavano gli outfit di Di Maio-Fico-Di Battista

Giulio Silvano

Non sempre l'abito non fa il populista. Un campionario: dai cachemire di Fausto Bertinotti alle riunioni del Pci in via delle Botteghe oscure, una sfilata di Marinella

Dove son finiti i tempi in cui la sinistra si criticava perché troppo elegante, gli anni in cui Fausto Bertinotti veniva lapidato per un maglioncino di cachemire (che si difese dicendo “era usato!” e poi iniziarono a regalargliene, anche le operaie, per solidarietà o sberleffo). I tempi in cui lo spin doctor di François Mitterrand, Jacques Séguéla, consigliava al futuro presidente di mettersi degli abiti un po’ più stropicciati, un po’ più consunti, per avere il favore del popolo in campagna elettorale, riservando l’eleganza formale (che gli donava eccome) solo in certe occasioni, come le nozze di Carlo e Diana. Con il nuovo turn-out elettorale in Francia, i membri del nuovo gruppo Nupes sono arrivati al palais Bourbon un po’ troppo casual, tanto che il sociologo Mathieu Bock-Côté ha detto: “Non ci si presenta in maniche di camicia all’Assemblée Nationale”, così come “non ci si presenta in bermuda e infradito a un colloquio di lavoro”. Giubbetti, scarpe da ginnastica e assenza quasi totale di cravatte tra i deputati. Ma echeggiano un po’ i discorsi che si fanno sulla scuola, agli esami universitari, o al liceo su mini short e top crop, o quelle raccomandazioni da boomer sul tagliarsi la barba o non farsi tatuaggi “se vuoi fare carriera”. O le ordinanze comunali antilibertine che vietano di girare in costume sul lungomare. “I vestiti sono un linguaggio, un segnale inviato alla società”, dice il quebecchese. 


Di certo l’abito non fa il monaco, ma fa il populista? Chez nous critiche simili erano venute fuori con la grande vittoria grillina, quando Emilio Colombo si arrabbiò, in Senato, vedendo quell’informalità anti casta, come se per aprire una scatoletta di tonno non si volesse sporcare una camicia di sartoria con l’olio. “Ho solo due abiti”, si vantava Di Maio nel 2016, ma era prima della svolta. Per capire in anticipo cosa sarebbe successo al M5s bastava vedere nelle prime uscite pubbliche come si vestiva il trio Di Maio-Fico-Di Battista. Il primo era già pronto per la Andreotti highway, il secondo per finire a parlare in qualche post festa dell’Unità e il terzo per l’esercito russo. Moda profetica.   La sinistra non sembra aver mai dato problemi con l’attire, appunto, al massimo troppo chic per rappresentare le masse. Le foto in via delle Botteghe Oscure nella Prima Repubblica sembrano sfilate di Marinella. Le canottiere erano una cosa da leghisti estivi della prima ora, il petto nudo di quelli della seconda, le felpe city-branding in inverno per il segretario. Ma i nostri Mélenchon?  Fassina con gli occhiali sul naso sempre in camicia. Fratoianni la giacca la mette sempre, in aula, anche se la sua foto profilo sui social è in t-shirt. Speranza poi, che è ministro, sempre incravattato. Civati zeligghiano, in base alla situazione. Un po’ noiosi, forse. Alla fine, nel mare postmoderno, meglio appropriarsi di un costume, come un cartone animato, tipo una Lacoste blu.