Terrazzo

I mori di Milano

Michele Masneri

Schiavi decorativi nella Lombardia e non solo; una controstoria dell’immigrazione  e dello schiavismo in  una mostra al Mudec

Tra “black lives matter” e i conti col passato coloniale, anche per posizionarsi in polemiche emergenti, ma su situazioni nazionali specifiche, sarebbe interessante andare a vedere una piccola mostra appena aperta presso il museo Mudec di Milano. Si intitola “La voce delle Ombre. Presenze africane nell’arte in Italia settentrionale (XVI-XIX secolo)” e nasce dal reperimento soprattutto di una serie di ritratti di aristocratici che al fianco avevano, sullo sfondo, servitori di colore. Da lì, tutta un’indagine approfondita porta a  una controstoria dell’immigrazione e della schiavitù in Italia e in Lombardia piuttosto interessante. 

 

Intanto, emerge la storia di una schiavitù precedente e parallela a quella “mainstream” cioè dall’Africa verso l’America. Nella “schiavitù mediterranea”, secondo il diritto canonico, tutti i non cristiani potevano essere schiavizzati (ma secondo il diritto islamico, tutti i non islamici  a loro volta potevano fare quella fine). Lo schiavismo “mediterraneo” e lombardo era poi peculiare perché  prevedeva, più che per le piantagioni, come poi in America, forniture di rematori per le galee oppure – in particolare a Milano - schiavi domestici, decorativi, che da un certo momento in poi diventano un grande status symbol. 

  

Un conteggio complessivo è difficile: ci sarebbero stati 40-50 mila schiavi in Italia tra il cinquecento e il seicento, tra schiavi veri e propri e “captivi” cioè rapiti, prigionieri. Si chiamavano ugualmente “mori” o “turchi” qualunque origine avessero. In mancanza di jus soli o scholae, anche all’epoca immigrati di particolare prestigio venivano liberati e ottenevano la cittadinanza: se oggi sono soprattutto calciatori che superano a pieni voti esami non difficilissimi, all’epoca erano medici, ambasciatori, o beati; come il “nero” di Garibaldi, Andrea Aguyar, che in uruguay, affrancato, si unì al gen erale fino a Milano, dove divenne suo aiutante e luogotenente.

 

La presenza di “mori”, sotterranea, ufficiosa, di cui non esiste una contabilità, viene fuori a spizzichi e bocconi: ecco  la leggenda dei Santi Cosma e Damiano e la “gamba nera” per cui i due santi, poi patroni della medicina, appaiono al moribondo Giustiniano, il sacrestano della basilica di Roma dedicata ai due, che ha una gamba in cancrena. Pronti, via, i santi-ER operano il primo trapianto di arto, preso da un povero “etiope” seppellito in San Pietro in vincoli (mentre gli Etiopi pre-coloniale erano schiavisti tremendi, come raccontavano peraltro i vari inviati:  la Camera dei Lord, ancora nel ‘35, denunciava che  “l’Etiopia è ancora il principale centro della schiavitù del mondo”). Anche, cortocircuiti: nel 1559 tre soldati si imbattono in un “moro” che si aggira per Milano, sostenendo che è sfuggito alla schiavitù in cui lo tenevano i Turchi medesimi; disse di esser cristiano, ma non seppe recitare preghiere; autorità comunali in confusione, si decide di  metterlo all’asta. 

 

Ma tornando agli schiavi milanesi, è difficile tracciare una ricerca perché venivano normalmente battezzati e milanesizzati, e pure perché i nobili forse – tranne i più esibizionisti – non ci tenevano, milanesemente, a mostrare lo sfarzo dello schiavo nero. Oppure invece si pensa che certi “moretti” venissero aggiunti in automatico dai ritrattisti, per dare un tocco di chic, in photoshop, come nel ritratto secentesco qui di nobildonna (forse Livia Arconati), con mastino e servitore nero. 

 

Il primo schiavo venduto (ci facciamo sempre riconoscere) è di un bresciano, Giovanni de Drivalis, che vende per 14 ducati d’oro un “moro” – così venivano chiamati nel 1486 a Gaspare Ambrogio Visconti. Secondo l’annalista  Francesco Muralto, a fine Quattrocento tutti i cortigiani di Ludovico Sforza possedevano uno schiavo, e lo stesso Ludovico il Moro non disdegnava di accompagnarsi con qualche servo di colore, giocando anche sul suo soprannome, dovuto alla carnagione scura. 

    

Diversi vengono affrancati, e tanti padroni si affezionavano molto. Nel 1603, il conte Pirro I Visconti Borromeo aveva ingaggiato perfino un’orchestra per festeggiare il suo “turchetto”. E nel ritratto del conte Vittorio Attendolo Bolognini, il suo “turchetto” vestito in marsina rossa da segretario, e con calamaio in mano, sembra quasi abbracciarlo. Il conte Giuseppe Manara (sopra) si fa fare ben due ritratti col suo moro, a metà Ottocento, e gli dedica pure un poemetto (“E te non tacerò, servo gradito/ quanto fedel, che dagli etiopi lidi/ dedotto a noi per molto mar, la vita. Ahi diro fato/ all’Eridano in margo/degli anni tuoi sul più fiorente aprile/abbandonavi, e ti seguia non scarsa/del tuo signor la lagrima pietosa). Il conte, appassionato di araldica e gastronomia, in casa aveva, a Cremona, alligatori imbalsamati, “lucerne cinesi”, “stoviglie del Giappone e longobarde”. Che storie, si immaginano, tra quegli interior molto moderni.

 

Pure Mantova secoli prima era un hub di schiavismo notevole: c’era particolare richiesta, perché Isabella d’Este amava lo strambo, dunque enorme domanda di “mori e morette” e in mancanza si praticavano delle black face scatenate: ad esempio, alla giostra organizzata per festeggiare Il matrimonio tra Ludovico e Beatrice d’Este nel gennaio 1491 un intimo del duca, Gaspare Sanseverino, in mancanza d’altro non trovò di meglio che scendere in campo accompagnato da dodici “stapheri tincti in mori”. A metà Cinquecento si ha notizia di “una mascarata di molti Gentiluomini in habito di Schiavi, con colori di bianco, et giallo, et soavissimo concerto di musica tenutasi a Milano, mentre nel 1574, per festeggiare don Giovanni d’Austria, venne allestito, a chiudere la stilata allegorica allestita sul corso di Porta Romana, “un carro trionfante tirato da otto schiavi vestiti tutti di rosso, con la catena al piede, et col menero alla gola inargentato”. In mostra c’è pure un moro albino, del Settecento, rarissimo, con pappagallo, e poi una serie di “distici” dello studente e artista ghanese-veronese Theo Imani, che mette al confronto antico e moderno, e qui in particolare si notano le incredibili somiglianze tra un barcone di migranti del 1789 con un celebre barcone fotografato dall’alto da Massimo Sestini. 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).