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Fuga da Silicon Valley

Michele Masneri

Covid e incendi spingono chi può ad andarsene da San Francisco. In tanti invece potrebbero finalmente trasferircisi, grazie ai prezzi in calo

La notizia non è nuova: se ne parla con cadenza quasi annuale, generalmente è più un wishful thinking di parti meno pregiate d’America e del globo. Ma questa volta pare ci sia del vero: è fuga, anzi fugone dalla Silicon Valley. Secondo i sondaggi infatti almeno 1 residente su 2 se ne andrebbe se solo potesse. Per il SFGate, sito del glorioso San Francisco Chronicle, questa volta l’esodo è “vero e reale”. Ovviamente c’entra il Covid: e pensare che sembrava un territorio risparmiato – ancora a marzo il governatore di California, il belloccio Gavin Newsom, già sindaco di San Francisco, figlio di uno storico amministratore di casa Getty, si vantava del successo dello smart working estremo e del lockdown tempistico (in più all’epoca vigeva pure l’idea un po’ romantica che il virus non toccasse zone ventilate-soleggiate; e lì, con quella bora, si sentivano giustamente tutti al sicuro). Invece poi niente: lo smart working rimarrà – Google ha annunciato che i suoi dipendenti lavoreranno da casa per almeno un anno; e il Covid è arrivato lo stesso, pesantissimo, 87 mila casi, di cui 1.178 morti – e il 2 settembre è stato il giorno con più contagi finora.

 

L’economia è devastata, soprattutto quella non digitale: i 4.415 ristoranti della città sono in ginocchio, avendo perso in media il 91 per cento di fatturato da marzo a oggi. United Airlines, compagnia che come quasi tutte sta tagliando di brutto il personale, ha detto che il 20 per cento dei licenziamenti riguarderà l’aeroporto di San Francisco (almeno 3.000 persone). Gap, storico marchio cittadino, ha chiuso infine il suo più grande e simbolico negozio, quello su Market Street. Nel frattempo ci si mettono pure gli incendi: che non solo hanno bruciato 500 mila ettari di terreni attorno alla Bay Area ma la ricoprono di fuliggine nebbiosa con regolarità, aggiungendo spleen sinistro. E i timori che San Francisco diventi una “ghost town” saranno forse esagerati, però certo il mood è decisamente cambiato e tanti equilibri improvvisamente saltano: che fare per esempio coi 18 mila homeless, normalmente considerati parte del paesaggio urbano ma che adesso paiono assai più inquietanti? Molti insomma pensano a delle vie di fuga. Già, ma dove? I prezzi a Lake Tahoe, una specie di Cortina californiana con lago balneabile d’estate e impianti sciistici d’inverno, già finanziariamente impervi (giornaliero sui 100 dollari) son saliti di un altro 20 per cento, perché tutti incoraggiano (vabbè, si è capito) lo smart working (che qui però chiamano lavoro da remoto).

 

E le imprese innovative, che minacciano la fuga un giorno sì e l’altro pure, sarà la volta buona che se ne vanno? Ma dove? Una delle mete sempre citate è Austin, Texas, graziosa cittadina che oltre al clima caldo e alla cucina tex-mex ha già vasti insediamenti Apple, e una micro-cultura vagamente siliconvallica (vi fu fondato Whole Foods, per dire); oppure Los Angeles, colpita anch’essa dalla crisi, con clima però più clemente e oceano balneabile. Però il fugone reale o temuto ha anche un lato positivo: le crisi epocali e catastrofiche sono generalmente l’unico momento in cui qualcuno non bilionario riesce a comprarsi casa a San Francisco. Quella dopo il terremoto del 1989; quella della bolla delle dot.com, che implose dopo un periodo di crescita forsennata (1996-2001), in cui i prezzi immobiliari raddoppiarono; quella infine dei mutui subrime nel 2008. Adesso si aspetta il fatale “aggiustamento dei prezzi” dopo la corsa micidiale dal 2012 al 2019, in cui i valori sono saliti del 101 per cento, dando vita alla leggenda definitiva dell’immobiliare siliconvallico. Che ha causato cambiamenti anche nel costume: si è tornati a vivere insieme, perché nessuno può permettersi i 4.000 al mese (in affitto) o il milione e tre dell’appartamento (prezzi medi in città); dunque educazione sentimentale dello startupper residente nel vano-scala, nascita di Airbnb come reazione ai prezzi delle camere d’hotel. A gonfiare ulteriormente le quotazioni, piani regolatori da sempre staliniani, impossibilità di costruire, sovrintendenze peggio che ai Fori imperiali anche per catapecchie di legno post-war.

 

Adesso si è entrati finalmente in una delle tanto sospirate crisi; i prezzi sono scesi già del dieci per cento (del 20 in centro), con la incredibile elasticità delle faccende americane, e probabilmente scenderanno ancora. Qualcuno dunque è contento: non solo chi da una vita sognava di trasferirvisi, e adesso potrà contare su agenti immobiliari col ciglio meno alzato. Anche e soprattutto i residenti della vecchia scuola, quelli che – sono una buona parte – hanno da sempre disprezzato Zuckerberg e i suoi derivati, gli startuppari nouveau riche che hanno imborghesito una città famosa per il sesso, l’amore e la droga libera. Artisti, poeti ma anche professori di scuola e insomma quasi tutti quelli che non lavorano “nel tech” erano stati di fatto deportati a Oakland o Berkeley. Adesso forse potranno tornare, e qualcuno sogna già un ritorno più epocale alla San Francisco leggendaria, quella in cui si poteva girare nudi per strada (una legge comunale che introduce l’oltraggio al pudore è stata fatta solo nel 2012, ma non viene applicata). Forse è solo nostalgia, ma la vecchia San Francisco beat e hippie depurata dai trucidi startuppari pare nuovamente a portata di mano: quella in cui vivere e dormire tutti insieme era una scelta non dettata dall’affitto, bensì squisitamente politica (e a volte anche erotica).