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L'Armani raccontato da Scorsese deve più alla mamma che a Milano

Andrea Minuz

“Made in Milan” è molto più di un ritratto commerciale commissionato da Armani. E’ un’elegia urbana, una dichiarazione d’amore bisbigliata: “Isola tranquilla per me e gli amici più stretti”

Se già non ne potete più di giacche “destrutturate”, eroi e antieroi hollywoodiani in cappottoni Armani e citazioni di “American Gigolo”, suggeriamo di disintossicarvi con “Made in Milan”, piccolo, prezioso documentario di Martin Scorsese. Lo trovate senza troppi sforzi su YouTube. E’ il 1990, Scorsese sta realizzando “Goodfellas” mentre Armani è ormai al picco della sua popolarità globale come “stilista di Hollywood”. Scritto da Jay Cocks (sceneggiatore di “Mean Streets”, “L’età dell’innocenza”, “Gangs of New York”), “Made in Milan” è molto più di un ritratto commerciale commissionato da Armani (dopo due spot girati da Scorsese alla fine degli anni Ottanta). E’ un’elegia urbana, una dichiarazione d’amore bisbigliata. “Di Milano ho fatto la città eletta, dove vivo e lavoro”, dice Armani mentre la macchina da presa di Scorsese svolazza sulle guglie del Duomo (non c’erano i droni).

 

“Milano è una metropoli, una città che ti permette di esprimerti se hai qualche cosa da comunicare”. Una Milano silenziosa, deserta, pre-Tangentopoli e influencer e Bosco verticale. Sembra uscita da un disegno a matita di Armani: linee pulite, volumi essenziali. “Quella di Milano è un’eleganza discreta, quasi sussurrata”, dice. “Una bellezza che è molto vicina al mio stile, al mio modo di vedere le cose”. Armani parla del fascino segreto dei cortili, dei giardini, delle strade piccole, “perché Milano non è Londra, non è Parigi”. Bisogna entrare nelle case. E allora entriamo con Scorsese nella casa di via Borgonovo, “isola tranquilla per me e gli amici più stretti”. Silenzio, divani vuoti. C’è tutta la retorica della bellezza che si nasconde, che bisogna cercare, meritare, che è stata la fortuna di Milano e anche un po’ di Armani. Ma quando Armani parla dei suoi genitori, e quando Scorsese ci mostra vecchie foto di famiglia, capisci che quel senso di eleganza precede Milano. Viene dalla provincia. Viene dai film hollywoodiani visti nei cinema di Piacenza. Da un’educazione al decoro e da una madre che gli cuciva i vestiti con gli scarti “facendomi sembrare il più elegante della scuola”.

 

“Ricordo l’eleganza essenziale di mio padre e mia madre”, dice Armani, “forse un’eleganza soprattutto interiore, anche perché avevamo pochi soldi”. E’ il calvinismo di Piacenza, altro che power-dressing. Certo poi Armani-Milano diventerà un brand, come Fellini-Roma, entrambi impacchettati per Hollywood. Ma da buon italo-americano, Scorsese racconta un Armani che deve più alla mamma che a Milano. Momento migliore del film: Armani che svuota le giacche e spiega che tutto sommato non ha inventato granché. Minimizza. “Volevo solo aggiornarla, ma senza tradirne lo spirito. Ho solo tolto i rinforzi interni per farla cadere in modo più naturale sul corpo. Ecco forse ho scoperto la ‘sensualità’ della giacca”. Una cosa da niente. 

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