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in televisione
Il big bang della tv: così i piccoli canali hanno rosicchiato share a Rai e Mediaset
Canale 5 attraversa una delle peggiori crisi della storia ma non è l'unico. Tutto è partito con il passaggio al digitale terrestre e anche se la maggior parte è rimasta composta da piccolissime emittenti, l’audience dei grandi è stata rosicchiata
Con la conclusione della stagione televisiva, il settore è già proiettato sulla prossima. La Rai ha presentato settimana scorsa i palinsesti per l’autunno, La7 lo farà questa settimana e Mediaset l’8 luglio, tutti cercano di adattare la programmazione a un periodo instabile. Se però si guarda a quello che è successo negli ultimi sei o sette anni, forse l’elemento più rilevante è stato l’indebolimento dei canali televisivi minori di Rai e Mediaset. Ormai sono quasi tutti sotto il 6 per cento di share, sia nel giorno medio sia in prima serata. Rai 2 tracolla a quasi il 4 per cento, grossomodo lo stesso livello di Rete 4, quando ancora nel 2024 era stabilmente sopra il 5 per cento. Certo i cali maggiori riguardano Canale 5 che attraversa una delle peggiori crisi della sua storia, con tradizionali programmi di prima serata che faticano a raggiungere il 15 per cento e una serie di lanci fallimentari che non hanno saputo intercettare il pubblico contemporaneo, con l’eccezione, forse, dei programmi di Maria De Filippi. In effetti, Canale 5 è entrata nel tunnel quando si è appiattita su successi passati e ha avuto paura di sperimentare, puntando sull’usato che sperava sicuro. Naturalmente sperimentare è più difficile in un canale grande perché i rischi sono maggiori. Inoltre l’indebolimento dei canali piccoli rende difficili quei passaggi naturali di un programma da un canale all’altro quando ha successo. Un programma che ha successo in canali con il 4-5 per cento non è detto che regga quando l’audience dovrebbe aspirare al 20 per cento.
Tutto è partito con il passaggio al digitale terrestre, quando si sono moltiplicati i canali e, anche se la maggior parte è rimasta composta da piccolissime emittenti, l’audience dei grandi è stata rosicchiata. Rai e Mediaset hanno mantenuto le loro quote complessive di ascolto con una proliferazione di canalini satelliti, generalmente con share inferiore all’1 per cento (solo 5-6 superano, di poco, questa soglia). Ma la quota dei loro canali generalisti è rispettivamente del 30 e del 26 per cento. La proliferazione dei canali digitali ha indebolito Rai 2, Rai 3, Italia 1 e Rete 4 che giocoforza trasmettono programmi un po’ più poveri. Infatti i costi sono fissi e quindi i palinsesti dei canali minori sono popolati da trasmissioni prodotte con meno risorse e, mediamente, meno attrattive. Finché i canali minori stazionavano all’8-9 per cento di share la porta per chi voleva fare il terzo polo era bloccata perché nessuno di quelli che partiva con 1-2 per cento poteva permettersi programmi così costosi. Però col tempo le distanze si sono ridotte, i giochi si sono aperti e, ad esempio, La7, che ha intercettato gli amanti dell’informazione dibattuta, è diventato il quarto canale in prime time, con quasi il 6 per cento, anche se rimane settimo nel giorno medio con poco più del 4 per cento.
Sia il Nove di Discovery che Tv8 di Sky sono cresciuti negli anni raddoppiando la share fino all’1,5-2 per cento. Del resto per due gruppi tv grandi e internazionali rafforzare l’audience partendo da livelli così bassi non è troppo difficile, anche se non necessariamente troppo redditizio. Certo, Nove ha fatto l’innesto di Fazio raggiungendo il 3,5 per cento in prima serata, ma per rafforzare l’ascolto lungo tutta la giornata servono altri investimenti. In televisione share e ascolto non dicono tutto. L’importante è anche quanto una tv è capace di convertire in raccolta pubblicità l’ascolto ottenuto. I grandi canali tv raccolgono circa il doppio di quelli piccoli per ogni punto di share che riescono a ottenere. Mediaset è a circa 65 milioni di euro all’anno nei tre canali maggiori. Gli altri, e Discovery, raccolgono 30-35 milioni per punto di share (raccolta pubblicitaria diviso lo share di un giorno medio). Rai ha limiti di affollamento, ma questo non spiega una raccolta di soli 26 milioni di euro per punto di share. Sembra stia abbandonando il mercato pubblicitario. La7 è più simile ai piccoli canali digitali che a un canale generalista con 42 milioni di pubblicità annua per ogni punto di share.
Un caso interessante è quello di Media Duemilia, la televisione dei vescovi italiani che, silenziosamente, nel tempo è cresciuta da mezzo punto a sopra l’1 per cento, stabile in tutte le fasce orarie. Certo la trasmissione più vista è la diretta del rosario da Lourdes, che con picchi del 3 per cento alza lo share medio del preserale all’1,8 per cento. I risultati sono molto promettenti e relativamente inaspettati. Anche se la partecipazione religiosa è calata, Tv2000 ha un ampio bacino di crescita. Ma essendo popolata da ex dirigenti Rai ha un imprinting da media televisione generalista, che non è, e scimmiotta in piccolo la Rai, specialmente nella struttura dei costi, che ne affossa irrimediabilmente i risultati. Una televisione con l’1 per cento dovrebbe avere un approccio corsaro e guerrigliero, sfruttare i terminali sul territorio delle sue organizzazioni di riferimento, fare programmi schierati, poveri e controversi. Ma questo richiederebbe un approccio organizzativo da radio libera degli anni Settanta. Il calo dei canali minori di Rai e Mediaset ha aperto il mercato e facilitato l’ingresso di nuovi operatori, ma ha anche qualche controindicazione. Innanzitutto per quei quattro canali molti generi e tipologie di programmi sono diventati quasi inavvicinabili perché i costi di produzione medi sono troppo elevati, contando anche che l’ascolto complessivo della televisione è in calo. Le case di produzione sono poco attrezzate per produrre a basso costo. Una televisione con il 4-5 per cento di share può avere in prima serata un audience media sotto il milione di spettatori e potrebbe spendere circa 40-45 mila euro all’ora per realizzare o procurarsi i programmi, un livello problematico che la lascia scoperta dagli attacchi dal basso. Oltre alle piattaforme digitali che continuano a rosicchiare ascolto e attenzione, le dinamiche concorrenziali dell’industria televisiva diventano progressivamente più difficili per i vecchi oligopolisti.