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Quarant'anni senza Beppe Viola

Maurizio Baruffaldi

La sua assenza lievita. E la più acuta presenza si manifesterà ancora e di più lunedì 17 ottobre, Teatro Parenti, dove una nutrita compagnia che va Abantantuono a Bruno Pizzul, da Bisio a Robecchi, si ritroverà per godersela alla sua inesauribile memoria. Un ping pong di voci storiche cresciute con il Pepinoeu

Una festa per i quaranta del Beppe. Viola. Perché il Pepinoeu è come se continuasse a compierli, gli anni. Da quel 17 ottobre 1982, quando Enzo Jannacci, socio al divin cazzeggio e suo medico curante disse agli accorsi al Fatebenefratelli: "È andato". Ma è sempre qui. La sua assenza lievita. E la più acuta presenza si manifesterà ancora e di più lunedì 17 ottobre, Teatro Parenti, dove una nutrita compagnia che va Abantantuono a Bruno Pizzul, da Bisio a Paolo Casarin, da Cochi Ponzoni ad Alessandro Robecchi, si ritroverà per godersela alla sua inesauribile memoria. La figlia Marina, autrice dell’intimo libro Mio padre è stato anche Beppe Viola, e il Paolo del Jannacci, porteranno anche il ricordo dei visi, di Quelli che hanno pennellato l’immortale inventario del chi siamo.

   

Uno degli ideatori di questo squadrone devoto è il giornalista di Rai News 24 Paolo Maggioni, autore qualche anno fa del documentario Quelli che... Beppe Viola per Rai3. Mi scrive: “Io sono violista atipico. Sono nato un mese prima che morisse e ho passato tutta la vita a inseguirlo. E ti racconterò perché mi ha cambiato la vita.” Sarà chiamato sul palco a moderare, dice il volantino, anche se moderare è un verbo che il nostro non ha mai praticato. ‘La sua romantica incontinenza era di una patetica follia’, scrive nel suo celeberrimo coccodrillo Gianni Brera, che con Viola condivideva il siparietto colto e popolare del post partita domenicale sportivo, e che si ritrovò solo, quella maledetta sera, a malcelare la sacra ironia.

    

Gli altri due motivatori della serata sono i giornalisti e scrittori Giorgio Terruzzi e Sergio Meda. Il primo finito giovanissimo sotto le palpebre a mezz'asta di Viola Beppe, con lui cresciuto, da figlio adottivo, tra professione e sentimento. Il secondo, redattore di lunga data della Gazzetta e fondatore con Viola dell’agenzia Magazine, meglio detto Marchettificio.

 

 

Ci si siede ai tavolini del Mago di Oz, locale che si affaccia sul verde costretto di Piazzale Bacone. Ricordo al volo l’incipit del film: ‘Io voglio un cuore, perché il cervello non basta a farti felice’. Avrà un suo perché.

  

Potremmo chiamarlo un raduno spontaneo.

 

“Sì, abbiamo chiamato gli amici, le figlie, e quelli per i quali Beppe è un riferimento,“ prende il testimone Giorgio Terruzzi. “Volevamo fare qualcosa a metà tra la memoria e ciò che è rimasto in circolo: che è ancora vispo, attuale, utile. E i 500 biglietti sono andati via in tre giorni. Non so quello che diranno, ma so più o meno il titolo. Per farti un esempio, ci sarà l’intervento di Stefano Lampertico, direttore della rivista di strada Scarp de' tenis, perché Beppe diceva sempre di dare un occhio agli ultimi. Tra l’altro il 17 ottobre è la giornata mondiale della povertà. Una casualità, ma è lì. La scaletta è molto informale, si alterneranno parole e musica, con una sveglia però: ognuno ha tre minuti. Perché dopo un’ora e quarantacinque, toh, dobbiamo andare fuori dalle palle. Abbiamo avuto il Parenti grazie a generosa amicizia.”

 

In sostanza: un gong a testa, ognuna la sua cosa intorno al Beppe.

 

“Io sono quello della sveglia” interviene Sergio Meda. “Controllo i tempi. Anche perché ho 50 anni di marciapiede. Divieto di lacrime, di lamentoso, ciglio asciutto e pedalare. Perché già l’idea di fare una serata in suo onore, l’avrebbe fatto incazzare a morte. Avrebbe detto uno dei suoi ‘Senz’alter’, per prenderti per il culo. Ti tagliava fuori, insomma.”

 

Tutto è nato tutto a questo tavolo del Mago, un po’ il quartier generale. E quando Beppe è morto hanno trovato in giro un sacco di bigliettini e appunti, tra i quali parecchi Quelli che… che non sono finiti nella canzone. Li leggerà Bisio, accompagnato da Paolino Jannacci al piano.

 

Ancora Giorgio. “Chi non ti aspetti che farà ridere è Paolo Casarin. Invece. Erano amicissimi. E Beppe gli diceva che non poteva fare l’arbitro perché sono tutte teste di. Una volta l’AIA lo chiama: ma come ti permetti di fare un’intervista senza contattarci? Era uscita, credo su Il Giorno, una sua fatta da Beppe, completamente inventata. Allora lui telefona al Viola, incazzato. E Viola gli risponde: Massì, almeno ti sospendono e la smetti! E infatti l’hanno sospeso.”

 

Ed ecco Paolo. “Nell’82, prima dei Mondiali, lui è l’unico arbitro italiano. Lo invita Beppe, per un’intervista reale, alla Domenica Sportiva, massima audience, e gli fa delle domande di una cattiveria inaudita, tipo: Ma con tutti gli arbitri bravi, perché tu? Abbiamo ritrovato le immagini, e c’è Casarin vestito come alla cresima, elegantissimo, che sudava di brutto, e Beppe che infierisce: Ma come sudi!”

 

Sergio. “Lui se ne intendeva: iniziava a sudare a febbraio.

 

Giorgio. “Una bestia, ma sul lavoro era un martello. Il primo pezzo che mi ha chiesto, intervista a un giocatore di rugby neozelandese, ci passo la notte e alla mattina glielo faccio vedere. Io in piedi e lui con ‘sto foglio in mano che dice: Dai, non è male!, mentre lo strappa in mille pezzi. Porca puttana! Dal quel giorno lì ho imparato a usare la carta carbone.”

 

Il carbone, prima del tasto Salva. Sembra impossibile anche pensare, oggi, a un’intervista inventata, o al famoso derbycidio?

 

Paolo. “E qui ci sta un elogio ai dirigenti della Rai. Ok, Tito Stagno ribalta la scrivania, però è andato in onda il servizio di Viola, il derby d’archivio al posto di quello appena giocato. Quel derby è stato cancellato dalla memoria collettiva, non esistono più immagini. Ci ho fatto una tesi. Era la prima volta che la DS andava a colori e lui ti mette una roba antica in B/N. Immagino un tizio che si è comprato la tele nuova e va lì a darle una botta: ma non era a colori?”

 

Giorgio. “Era un’aria, un filone, che guardava da un punto di vista completamente diverso. Piero Manzoni faceva la merda in scatola, Fontana tagliava la tela, per dirne due. O il dire le parole al contrario, del Giambellino. Erano la stessa cosa. Non è un caso che lui ed Enzo si siano intesi, pur diversissimi: ridevano per cose che altri non capivamo.”

 

Paolo. “Di quelle lente deformante lì, però, si ride ancora adesso.”

 

Giorgio. “Diego dice che i primi tempi che si esibiva al Derby guardava solo loro: se ridevano quei due lì, era a posto.”

 

Sergio. “Non era il Fuori dal coro. Era un altro coro. Molti non capivano, e chi capiva adorava.”

 

Come funzionava il marchettificio?

 

Giorgio. “Proponevamo pezzi già pronti, anche interi inserti, ne ricordo uno per Vogue, (definito da Viola: ‘Giornale per abbronzati a novembre’). Oppure per l’Intrepido, Il Monello. O a tutta una serie di quotidiani regionali, che non potevano permettersi inviati, e al posto di avere robette di agenzie, avevano il pezzaccio a un prezzo ridicolo: potevi farlo perché lo vendevi a dieci testate, da Il tirreno di Livorno a Il Gazzettino di Venezia, coi loro lettori separati, senza conflitto di target. Era una moltiplicazione dei pani e dei pesci. Sfruttavamo i ganci di Beppe. Erano quasi tutti giornalisti Rai, senza il vincolo sulla carta stampata. Poi avevamo dei fuoriclasse anche dietro le quinte. Uno su tutti, l’archivista della Gazzetta Andrea Motta. Veniva al Magazine mezza giornata. Aveva giornali e fotocopiatrice. Ritaglio di Maradona: lo metteva in busta Maradona, in busta Napoli, in busta Argentina, in busta Irregolari del calcio.”

 

Sergio. “Ha inventato il link. Poi c’erano tutti quelli volevano lavorare con noi, si proponevano, e Beppe gli diceva ‘Te se minga bun’, col sorriso. Ridendo si dicono le cose peggiori.”

 

Paolo. “I giocatori te li passavano in Hotel. Era un altro mondo. La domanda faceva la differenza. Oggi non la fa, perché hai la risposta prestampata.”

 

Per rinfrescarsi, rivedere le interviste del Beppe, a bordo campo, in studio, negli spogliatoi, sui gradini di una porta, la strafamosa in tram con Rivera: sempre un po’ stronzette, sempre leali.

 

“Ha lavorato come un pazzo, per la tv, la radio, i libri, gli articoli, le canzoni e il cinema. Adattava al mezzo il suo sguardo, il mezzo al suo sguardo. E ha influenzato soprattutto il linguaggio non sportivo. Quello è rimasto paludato.”

 

Penso alle telecronache esagitate e ridondanti, e poi i pipponi in studio, tavole rotonde compiacenti. ‘La parola si gonfia come un muscolo e vien fuori la retorica’. Sempre il Brera.

 

Intanto uno stagionato chitarrista si siede sul muretto che limita lo spazio esterno del Mago di Oz. Parte un brano evergreen ad accordo grosso. Alziamo le voci.

 

Oltre che sceneggiatore e dialoghista in Cattivi pensieri, col Tognazzi avvocato milanese e una Fenech che rendeva ciechi, Beppe Viola lavorò come consulente dialetto per il film Romanzo Popolare. A Milano non lo senti quasi più, il dialetto.

 

Giorgio. “C’è stata troppo osmosi. Contaminazioni. Peccato. Io farei una scuola di dialetto milanese. Col Beppe c’era sempre. Adesso è dura. C’è il Sanfilippo, che lo usa. Le mie figlie non capiscono niente.”

 

Io lo sento sgorgare, per grazia paterna, ma poi scriverlo annaspo.

 

“Scritto è un casino. Sembra olandese. Ti consiglio Ore di città, di Delio Tessa, Einaudi. Storielle milanesissime, con tanto dialetto. Una goduria. Quell’umorismo cinico. Intramuscolo.”

 

Paolo. “Però la cadenza, quella è sempre lì. Mi siedo al bar a bere una Coca, la fulmino in pochi secondi, e il tipo dietro il banco mi dice ‘Uela, l’hai già bevuta!’. Un vero milanese con gli occhi a mandorla, figlio di uno di Pechino.”

 

Sergio. “I pugliesi come Abatantuono l’hanno assimilato, era loro. Poi non gli serviva più ed è sparito.”

 

Chiedo cosa farebbe oggi Beppe Viola, e Giorgio scuote la testa riccia, dice che si cambia, non si sa, non ha senso chiederselo. Annuisco, sconfitto. Sergio fa la faccia perplessa e trattiene un Senz’alter. Paolo si concede, minimal: “Nei 180 caratteri di Twitter sarebbe stato imbattibile.”

 

Chiudiamo con il suo perché gli ha cambiato la vita.

 

“Abitavamo nella stessa via di Jannacci. Mio padre era medico anche lui. In casa mia c’erano libri e canzoni della coppia. Questa visione bizzarra, romantica, incontinente, pure, e quella malinconia… Ho sempre cercato di dare un contorno a quella Milano raccontata, che mi ha cresciuto. Mio nonno faceva il tramviere, e il tram è rimasto uguale, a testimoniare quel tempo. La gentilezza, l’ironia e l’acume di mio nonno è quello che ho sempre inseguito, ecco. E scoprendo Viola ho conosciuto sua moglie Franca, il Giorgio, un secondo padre, e Sergio, e le quattro figlie di Beppe. In molte occasioni, mi chiedo cosa avrebbe fatto lui. Perché dai, anche se non l’hai vissuta, hai diritto a rivendicare quella nostalgia.”

 

Quelli che… dopo le risate, rivendicare la nostalgia.

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