Antonello Falqui in un'immagine del 2004 (foto LaPresse)

Antonello Falqui e la perfezione del varietà televisivo

Fabiana Giacomotti

Il regista è morto questa mattina all'età 94 anni. Per anni ha ideato, fin nei minimi particolari, le trasmissioni del sabato sera della Rai. Intervistarlo era impossibile se non lasciando a lui la regia di ogni movimento e di ogni parola

Intervistare Antonello Falqui era possibile solo lasciando a lui la regia di ogni movimento e di ogni parola; luci, disposizione delle telecamere, anche la sequenza delle domande. “Prima le parlo di questo, le dispiace?”. Per carità, prego. Si quietavano anche gli operatori della Rai, convinti sempre di saperla più lunga e talvolta a ragione. Lui, però, la sapeva meglio e di più, e loro lo sentivano. “Che dice, maestro, sposto il faretto più a destra?”.

 

Il regista di ogni nostra memoria del varietà televisivo, scomparso questa mattina a 94 anni, dava indicazioni dal divano o dalla poltrona dove aveva scelto di raccontarsi, più il primo della seconda, e faceva un gesto con la mano, agitando un po’ il fumo della sigaretta che ne prolungava indissolubilmente e con costanza i movimenti. Era sufficiente. “Certo, maestro. Meglio”. Tutti contenti, si girava in mezzo agli sbuffi di fumo azzurrino, tanto poi il tecnico avrebbe messo i filtri e rischiarato, ma volevi mica chiedere ad Antonello Falqui di spegnere la sigaretta in casa sua. In quell’appartamento nella zona bella e ricca dei Monti Parioli, a due passi dalla casa di Mario d’Urso che ne possedeva gli stessi tratti da grand seigneur, si respirava poco e si imparava molto. Si ascoltavano gli aneddoti favoriti come quello di Mina che, conclusa l’ultima puntata di "Milleluci", anno 1974, “non gioco più, me ne vado”, prende il cappotto, dice che parte e telefonerà da Milano e quando arriva, a notte inoltrata, lo chiama e gli dice che se ne è andata per sempre e non tornerà davvero più, addio grande diva e compagna di interminabili partite notturne a scopone scientifico.

 

Antonello Falqui e Mina, a Roma, nel 1961 (foto LaPresse) 

 

E poi le dritte di regia, le lezioni di storia del costume e anche dell’arte, perché la famiglia Falqui, perlopiù giuristi e avvocati tranne il padre Enrico, scrittore e critico, era grande collezionista di manufatti Liberty e di affiches, un po’ nello stile di Paolo Portoghesi. Antonello Falqui, ex studente in giurisprudenza della Sapienza, che aveva lasciato perché la televisione gli era parsa più interessante, aveva arricchito la collezione con l’inevitabile occhio attento al teatro e quell’amore per Parigi che alla fine degli Anni Cinquanta lo aveva portato a ingaggiare per la Rai tutta la banda del Lido, dalle Bluebell vestite di tulle da Folco Lazzeroni Brunelleschi alle due perle che avrebbero turbato i sonni e anche le veglie degli italiani, Alice ed Ellen Kessler. Arrivarono su richiesta della Rai targata Diccì, la televisione di stato di Ettore Bernabei, che voleva offrire il sogno del teatro ricco, costumato e musicale ai troppi italiani che non potevano permettersi di uscire la sera a spendere. Otto ore di esercizi alla sbarra al giorno, ma ancora se ne vedono i risultati quando si fa il fermo-immagine: con quelle gambe calzate di nero, le gemelle sembrano due compassi. Con le ballerine di adesso (le poche rimaste, il genere è in disuso da anni) l’effetto è di un gregge al pascolo: inutilizzabili. Con lui, invece, fatica e perfezionismo: tutto costruito perché tutto sembrasse naturale.

 

Nell’archivio di Rai Teche sono conservate centinaia di foto che ritraggono Antonello Falqui, sempre immerso nella sua personale nuvola: lo si scorge, con quella faccia dai tratti eternamente infantili, nella sala di regia del “Musichiere”, anno 1957, il primo programma importante della sua carriera,  in cui il conduttore Mario Riva poteva ospitare nel giro di tre settimane Nat King Cole, Jane Russell e Josephine Baker mentre Louis Armstrong si metteva a suonare con la band nel cortile di via Teulada; lo si osserva mentre dà indicazioni ai cameramen di “Studio Uno”, il varietà dell’eleganza e delle innovazioni tecniche che ancora stupisce gli storici dei media all’estero, con le americane a vista e i fondali lasciati anche un po’ spiegazzati, perché si capisse che lo spettacolo era nella parola e nei costumi, nei testi del suo sodale Guido Sacerdote o di Dino Verde, o ancora suoi, perché scrivere gli piaceva. Prove per tutti, anche per gli “uomini per lei”, Mina: Peppino de Filippo, Alberto Sordi, Vittorio De Sica, perfino per il canetto di Franca Norsa, al secolo Franca Valeri, come ci ha scritto lei stessa, nel 2014, nella prefazione di un libro, e che riportiamo: “I salotti non esistevano; né mondani né politici (in televisione): sono un prodotto di fine secolo; i romanzi erano un po’ più rari e la recitazione direi migliore, o no? E’ lo spettacolo del varietà o del sabato sera che segna il distacco storico. Perfino il dialogo fra Mina e Sordi era scritto; certo, era previsto che lui ci mettesse del suo. Il regista che per anni ha ideato il sabato sera era Antonello Falqui e lui lo portava fino alla perfezione. Per me era l’ideale; non ho mai improvvisato. Un piccolo aneddoto. Un giorno ho portato il cagnolino, Roro II, appena arrivato dall’Inghilterra. Antonello entusiasta decide che Roro cominci la puntata, lo studio vuoto e lui in mezzo. Al primo ciak il piccolo gira la testa stupito e accenna un piccolo “bau”. Tutti entusiasti, finché Antonello dice: “Facciamone un’altra”. Alla settima, mentre rincorro il mio tesoro, la voce del regista: “Meglio la prima”.

 

Uomo colto, dunque ironico e spiritoso, Antonello Falqui ha lasciato un epitaffio che gli somiglia molto: “Sono partito per un lungo lungo lungo viaggio...potete venire a salutarmi lunedì 18 novembre alle ore 11 alla Chiesa S.Eugenio a V.le Belle Arti Roma. Mi raccomando, niente fiori...al loro posto, se volete, potete aiutare l'associazione QuintoMondo Animalisti Volontari Onlus. P.S. Perdonate Jimmy, Matteo e Luca se non vi hanno avvisato prima”.

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