Foto tratta dal profilo Instagram di baby_netflix

Le baby prostitute dei Parioli e la psicosi della scuola pubblica

Michele Masneri

Tra realtà e finzione, gli strani effetti della febbre alta guardando le miniserie in tv

Avere la febbre: cosa c’è di meglio per abbandonarsi alla televisione? Così ci si è imbattuti in uno strano prodotto, assai affascinante. “We are in the best neighborhood of town”, o qualcosa del genere, diceva una voce di fanciulla fuori campo, e partiva una ripresa a volo d’uccello su un quartiere lindo di una città europea, con un campus vagamente brutalista dove ragazze e ragazzi di prepotente adolescenza si allenavano – taluni perfino figli di diplomatici! – nel verde.

 

Era forse uno spinoff o epigono della recente serie “Elite”, del filone studentesco-ormonale, che si era vista ultimamente, e dunque ora ci venivano propinati i suoi derivati dall’efferato algoritmo di Netflix?

 

“Baby”, filone di cronaca di cinque anni fa, in cui ragazzine non bisognose cedevano alla fatale offerta “per un iPhone o una borsa”

Il tema centrale non è la prostituzione ma è la scuola. Si va anche sui luoghi. E alla fine questo “Baby” sembra più bello

Ma poi a un certo punto spuntava Galatea Ranzi, che con voce esausta sibilava “Love doesn’t exist!”, a una figlia attonita. Perché Galatea Ranzi parla in inglese? Qui aumentava la confusione: non era la somma attrice che per gli ultimi quindici anni ha fatto la mamma riflessiva in pellicole italiane, da “Caterina va in città” alla “Grande Bellezza”? (se la Magnani era mamma Roma, Ranzi è mamma Pd). Dove eravamo dunque? Il termometro segna trentanove. Si son perse le coordinate. Presa una Tachipirina mille (cit.), rimesso l’audio in originale, sonnecchiando, vedendo i droni sfreccianti su quel quartiere lussureggiante, e colf filippine incessanti che spingono aspirapolvere in interni resinati, ci si chiede: si capisce: è Roma, ed è un sequel di “Incantesimo”. Evviva.

 

Dello sceneggiato Rai del resto questo show ha i topos, aggiornati ai nuovi ritrovati internazionali: c’è il momento dello spiegone, che arriva a coprire taluni buchi di sceneggiatura: “Vedi Ludovica, io non sono come te!”, dice la bionda Chiara, figlia di Galatea Ranzi; in altri momenti, quando già non è intervenuta a risolvere situazioni difficili da mostrare, la musica “a palla”, tratta dalle migliori promesse dell’indie italiano, diventa live: gli attori cantano infatti un motivetto. Paola Pitagora a La-La Land?

 

Momento di lucidità: siamo in “Baby”, molto attesa serie romana sulle (appunto) baby prostitute dei Parioli; filone di cronaca di cinque anni fa, in cui ragazzine non bisognose cedevano alla fatale profferta “per un iPhone o una borsa”. Seguirono sdegno, caccia ai nomi eccellenti – tra tutti, l’ex capitano della Guardia di Finanza Mauro Floriani, marito di Alessandra Mussolini – e poi l’oblio (c’erano le faccende di mafia capitale, ubi maior). Adesso questa serie, diretta da Andrea De Sica e scritta da un collettivo giovane fin dall’acronimo, Grams*, è già diventata “di culto”, e però ci si confonde davvero con “Elite”.

  

Tante somiglianze: un collegio di ricchi studenti; famiglie molto liquide che abitano attici vetrati su speroni panoramici. Nella spagnola, però, oltre a esserci un delitto, c’è anche una tangentopoli, con la first family di questo liceo che produce la vittima protagonista dell’intrigo, un fratello sexy-hidalgo come in quella italiana (con bildung simile, da bonazzo solo arrogante a bonazzo che mostra le sue fragilità), e infine la nemesi poliziesca (tutti dentro, con senso di colpa già trasferito su pellicola degli spagnoli per la loro mini ripresa economica?). Nella serie romana, invece, né delitto né tangenti.

 

Però sempre tanti arabi. A Roma, nientemeno che un ambasciatore del Libano: barbuto, sempre di cattivo umore, ha sposato prima una sòra del Quarticciolo, e poi una professoressa di ginnastica (ma quindi questo ambasciatore oltre a essere molto democratico negli sposalizi è fisso a Roma, par di capire; non rispettando la turnazione cui sono normalmente sottoposti i diplomatici). Nella spagnola, invece, c’è una bella famiglia palestinese con tutte le sue contraddizioni. Il figlio arabo, comunque, è in entrambe tossico e spacciatore. Anche se in “Baby” è arabo per modo di dire, in quanto figlio dell’ambasciatore e della prima moglie periferica, di cui nulla si sa (spunterà in una seconda stagione?).

 

Nella spagnola il dissidio familiare è tra modernità e identità, i figli palestinesi non radicalizzati mettono in crisi i genitori tradizionalisti che non li vogliono mandare alla scuola secolare. Nella serie romana il clash culturale, non meno lacerante, è invece se rimanere all’originario e valoriale Quarticciolo o ai lussuosi e secolari Parioli. Il figlio dell’ambasciatore vive il dissidio sulla sua pelle. Compra la roba al Quarticciolo e la piazza ai Parioli, anche.

 

In entrambe le serie poi il figlio del preside è gay: nella spagnola la preside è donna progressista ma reagisce poi non tanto bene al coming out (mentre il papà è tennista e soffre molto quando il figlio dice che abbandonerà la racchetta, più che l’organo muliebre); nell’italiana invece il preside inflessibile – il grandioso Tommaso Ragno – svela poi un lato molto soft quasi tipo “Call me by your name”.

 

La prof di ginnastica (Pandolfi) nel frattempo si fa le canne con lo studente bonazzo e ci si accoppia pure, pur giustificata da una vita di rinunce: è stata atleta, e ora soffre in troppe cene d’ambasciata con noiosi diplomatici, in cui cerca consolazione nell’alcol ma il marito le toglie il bicchiere di mano (bella la citazione di “levateje er vino”, primo “Vacanze di Natale”, 1983). In “Elite” invece il fantomatico ambasciatore è messicano, ma non si vede mai. Però è chiaro che l’ambasciatore con la sua ambasciata possibilmente esotica, extra Schengen, è un personaggio fondamentale di queste storie di quartieri alti. Nel sequel, per cambiare, si potrebbe inserire un nipote di un Nunzio vaticano, che qui ai Parioli giocando mettiamo a calcetto nel giardino della Nunziatura, a via Po, già villa Levi che ispirò “Il conformista” di Moravia, ritrova delle ossa fondamentali forse lì seppellite dalla banda della Magliana (e lì magari dall’ambasciata del Libano esce a questo punto quasi filologicamente er Libanese).

 

Nella spagnola c’è poi una marchesa del vino, mentre qui in “Baby” mancano inopinatamente dei nobili. Non che ai Parioli manchino, del resto. Ci stanno pure le regine: vicino alla vera ambasciata del Libano, a viale Gioacchino Rossini, ecco il villino di Paola del Belgio, che esattamente sessant’anni fa, il 6 dicembre 1958, entrò al ballo della sua amica Maria Camilla Pallavicini, le rubò Alberto del Belgio – e ne uscì regina.

 

Ma tornando alla serie, e sempre febbricitanti, che confusione tra la Tachipirina, i presidi e i tennisti e gli ambasciatori. Nel frattempo le due baby squillo finiscono in un quartiere molto degradato. Cambia la fotografia. Sono ringiovanite. Un lungo flashback? Una è sempre mora ma qui ha i capelli molto unti, l’altra è sempre brava e bionda e pettinata. Nel loro quartiere però è tutta una legnata, botte da orbi, pietre in testa, ferite, minacce, ferri da stiro giù dalla finestra, corna e ammazzamenti. Una vita di inferno. Queste cose ai Parioli non succedono (qui sì, però, che si è su Netflix, si è pensato subito: un prodotto così americano, così professionale).

 

E invece no! Si scopre che è Rai 1. Che confusione. Con plot similissimi, poi: le due ragazzine, la bionda educata e la mora sempre potenzialmente cattiva e mignotta. Qui le ragazzine, che anche con tutti gli sforzi non potrebbero però dire “we live in the best neighborhood!”, finiscono però per prendere anche loro dei soldi da un don Achille ras cattivissimo, non lontano dal Saverio lenone di “Baby”.

 

Tante somiglianze con la spagnola “Elite”: un collegio di ricchi studenti; famiglie molto liquide che abitano attici vetrati

L’ambasciatore con la sua ambasciata possibilmente esotica, è un personaggio fondamentale di queste storie di quartieri alti

Però il tema centrale di tutte queste serie, è chiaro, non è la prostituzione ma è la scuola: il sogno della privata e l’incubo della pubblica. Nell’“Amica geniale” nessuna delle due famiglie subproletarie vuole pagare la retta alle figlie talentuose; e in “Baby” nemmeno alle figlie poco talentuose. Ludovica (la mora) ha una mamma un po’ svampita (Isabella Ferrari) che spende tutti i soldi della retta dietro a un suo toy boy che s’è messo in testa di fare “il buyer” (forse in società con Camillo Bona, lo stilista di Monterotondo che ha vestito la Raggi per la prima all’Opera di Roma). Nella serie spagnola, i proletari arrivano alla scuola privata perché la pubblica è crollata (metafora?). Ma il climax è ai Parioli: “Finiremo alla scuola statale!” dice una ragazza a un certo punto, in uno dei momenti più drammatici: non all’inferno, o in galera, o in mezzo alla strada. Alla scuola statale! Ma da dove arriva questa psicosi della scuola pubblica che colpisce così gli immaginari tra Spagna, Parioli e Napoli? C’entra Renzi e la Buona scuola? E’ chiaro che siamo di fronte a un’unica grande serie tv paneuropea: è l’amica statale.

 

La realtà è un po’ diversa, forse, però. A Roma si sa che i licei delle classi dirigenti sono pubblici, ai Parioli c’è il Tasso, sebbene talune élites optino per il francese Châteaubriand o l’inglese St. Stephen’s (e i più sadici per le scuole svizzera o tedesca). Anche la routine delle baby squillo vere poi era più hard: nella cronaca giudiziaria di quel 2013 fatale, le due ragazzine erano irretite da un caporale dell’esercito e da un agente di spettacolo che, a differenza di “Baby”, le mettono a lavorare sodo. I clienti sono 500. L’agente, con nome insuperabile, si chiama Mirko Ieni. Intercettato, dirà: “Queste due me fanno guadagnà 600 euro al giorno!”. Intervistato per il docufilm “Professione Lolita”, del 2009, Ieni svelerà: “Alla fine è diventato quasi un passatempo, come la settimana enigmistica. Era talmente semplice ”. Se tardano, però, l’enigmista Ieni le ricatta e le sgrida. Una delle due ragazze viene sgridata anche dalla madre, che caldamente la sospinge al meretricio. “Senti un po’, tu non te movi oggi?”, chiede la madre intercettata dai Carabinieri. “E come facciamo? Perché io sto a corto, dobbiamo recuperà”. L’agente e il caporale gli avevano messo su un appartamento, un baby lupanare a viale Parioli 190 (Poi Ieni prenderà dieci anni di carcere, e la mamma terribile sei, perdendo la patria potestà. Sette anni al caporal maggiore, che si chiama Nunzio Pizzacalla. Il marito della Mussolini patteggia un anno).

 

Mentre cala la febbre, si va, a questo 190 di viale Parioli. Si prende il motorino e dribblando le buche assassine, approfittando dell’inverno mite romano, si arriva giù davanti a questi cinque piani un po’ malmessi con fili di antenne pencolanti e data di fondazione 1923, dove si sarebbero consumati gli sfruttamenti baby; e al 190 nelle intercettazioni entrava pure un indagato di Mafia Capitale: anche se non si seppe mai per quali traffici e in quali uffici; e però “er 190” pareva veramente “er duecentodiciannove”, “er palazzo dell’oro” o “dei pescecani” di gaddiana memoria, con diversi delitti forse intrecciati e forse totalmente indipendenti, che si incrociano nello stesso caseggiato affluente. Allo stesso civico c’è anche un negozio Gabrielli per uniformi di 
maggiordomi e colf, con crestine e targhe di vittorie al rugby 1947 all’Acqua acetosa (qui dietro), e viene in mente naturalmente “Dichiarare il secondo”, altra citazione vanziniana d’epoca (però in “Baby” si mangiano soprattutto proteine, e nello squallore della famiglia separata in casa la baby Chiara mangia pollo ai ferri e spinaci, mentre Camilla butta del gran sushi neanche toccato, a segnalare opulenza e scarsi valori morali). Ma di fronte al 190, anche l’ambasciata del Senegal presso la Santa Sede (o del Parapagal?). Piazza Santiago del Cile (“Santiago, Italia”). Poco più su, la pasticceria il Cigno, che sfama le borghesie locali, e dove Ugo Tognazzi insegna al figlio a rubare sui maritozzi (“I mostri”): altri luoghi di diseducazioni sentimentali parioline.

 

Ma dopo essere stati sui luoghi, si torna a riveder le ultime puntate, e con la convalescenza ’sto “Baby” sembra più bello. La serie va goduta così, senza troppe domande, magari anche senz’audio. Certo c’è qualche dialogo un po’ così (“Come stai?”. “Sto”; qualche giovanilismo che pare scritto da cinquantenni, “tecnica shottino modalità on”, quando le due si ubriacano. Momenti di onanismo vintage col figlio del preside che si fa una pippa non su una pesca o su Youporn, bensì su una pagina di 7 del Corriere della Sera. Saranno perversioni dei Parioli rarissime.

 

Ma è certo una suprema ironia e parodia: è un “Boris ai Parioli”, vista anche la presenza in qualità di efferato lenone di Saverio alias Er Biascica (convincente in entrambi i ruoli), e del resto i giovani Grams*, avevan detto d’esser fan della storica serie.

 

Soprattutto vien voglia di difenderla, questa “Baby”, per patriottismo e campanilismo. Sulle fatidiche timeline, infatti, arrivano col passar dei giorni commenti sprezzanti soprattutto di milanesi (i milanesi commentano di più sui social). E’ chiaro che dietro agli sfottò per la serie c’è un antico sentimento antiromano, così cresciuto in questi anni post Expo, con questa superiorità morale. “Roma per me è un flyover, ci volo sopra per andare a Palermo”, ha detto un amico, serio, ultimamente. “Ma come fate a vivere lì? è ormai un classico”. Questo disprezzo adesso vien fuori tutto su “Baby”. “Esistono romani ricchi fuori dei film dei Vanzina?”. “Romani che sciano, coi piumini!”. “Ridateci Alberica Filo della Torre!”, fanno gli spiritosi, confondendo oltretutto i quartieri, Olgiata con Parioli. La playlist delle ragazze si chiama “presabbène”! I più complottisti: “Roma ha sòlato, nel senso di fregato, anche Netflix, si è fatta pagare l’albero di Natale e poi gli ha dato questo sceneggiato dove non si sente l’audio, perché hanno usato fonici romani”, con riferimento all’abete sponsorizzato di piazza Venezia.

 

“La trattativa Roma-Netflix”. E’ ora di dire basta. Attendiamo una serie ambientata a Milano. E le scuse ai romani: che sono molti nel mondo: non solo ai Parioli.

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