
Foto di Bartosz Kwitkowski su Unsplash
a Taipei
L'odissea di Taiwan per dominare il settore dei microchip
Un documentario racconta la nascita dell’industria dei semiconduttori, frutto di un azzardo politico trasformato in successo globale grazie al lavoro collettivo di tecnici e operai. Il lato umano e strategico di un’impresa che ha reso l’isola centrale nell’economia mondiale, ma anche esposta a nuove fragilità geopolitiche
Taipei. C’è un momento in A Chip Odyssey in cui uno degli ingegneri della prima generazione, ormai anziano, ricorda le parole che il ministro dell’Economia Sun Yun-suan gli rivolse negli anni Settanta: “Potete solo riuscire, fallire non è un’opzione”. In quella frase si riflette lo spirito di una sfida che, nel giro di pochi decenni, ha trasformato Taiwan da periferia tecnologica a centro della produzione mondiale di semiconduttori. Il film diretto da Hsiao Chu-chen ricostruisce la nascita e lo sviluppo dell’industria dei semiconduttori a Taiwan, un processo che non è solo industriale ma anche politico, sociale e identitario. Il tono è a tratti celebrativo, ma resta una ricostruzione accurata di uno dei processi tecnologici più significativi del secondo Dopoguerra. La regista non si concentra solo sui grandi nomi, ma dà spazio anche alle voci di chi ha costruito l’industria dal basso. Le operaie che negli anni Settanta e Ottanta affollavano le linee di produzione ricordano i turni di straordinario come un’occasione per guadagnare qualcosa in più; gli ingegneri vengono mostrati non come figure leggendarie, ma come giovani di origini modeste che hanno trasformato le difficoltà in motivazione e competenza. Un ritratto che restituisce la dimensione umana di un settore spesso raccontato solo attraverso numeri e primati.
La decisione del governo di Taipei di investire nel settore dei semiconduttori fu l’avvio di un percorso che avrebbe cambiato il destino dell’isola. In documenti dell’epoca compaiono parole come betting e gambling: fu davvero, come ricorda la regista, “un enorme azzardo a livello statale”. Nacque così il modello del pure-play foundry, basato sulle fonderie che, grazie a investimenti continui nei processi produttivi più avanzati, hanno mantenuto Taiwan al vertice della catena globale del valore. La vicenda industriale arriva nel contesto delle grandi trasformazioni internazionali che segnarono Taiwan negli anni Settanta: la fine degli aiuti americani, la perdita del seggio Onu, la crisi energetica. In quel clima nacque il gruppo degli RCA 37, inviati negli Stati Uniti per apprendere le basi della produzione di semiconduttori: le tensioni geopolitiche rafforzarono la convinzione che il futuro dell’isola passasse dalla capacità di diventare pioniera in un settore tecnologico. Guidati da Pan Wen-Yuan, considerato il padre dell’industria dei chip taiwanese, molti di loro aprirono le prime aziende di circuiti integrati.
La studiosa Annalee Saxenian li ha definiti i “nuovi Argonauti”. Ma il trasferimento tecnologico fu solo un punto di partenza: servivano decenni di investimenti per perfezionare il modello delle fonderie, e le aziende statunitensi beneficiarono del sistema, potendosi concentrare sul design mentre Taiwan garantiva la produzione dei chip. La centralità raggiunta da Tsmc e dalle fonderie taiwanesi mette oggi in luce tanto la forza quanto la vulnerabilità di un modello unico al mondo. A Chip Odyssey sottolinea anche le difficoltà odierne: le minacce politiche, la competizione tecnologica, il crescente fabbisogno energetico e la scarsità di personale qualificato. Come ricorda uno dei produttori, “queste persone non lo fecero per i soldi, lo fecero per Taiwan”.