Benedict Cumberbatch in “The Imitation Game”, di Morten Tyldum

Pensare, imitare?

Antonio Gurrado

La filosofia a tu per tu con l’intelligenza artificiale. Turing e la pazienza delle macchine, i paletti di Wittgenstein. Ma il primo è stato Cartesio

Cartesio dormiva nudo – lo racconta lui stesso – e mentre dormiva sognava di essere in vestaglia, accanto al fuoco, intento a scrivere le “Meditazioni metafisiche”. Nella stesa opera spiega che quest’attività onirica dai contenuti verosimili lo aveva fatto propendere per il dubbio iperbolico: se durante il sogno, si diceva, sono convinto che il mio corpo sia seduto presso il camino mentre è sdraiato nel letto, può darsi allora che la mia intera consapevolezza risulti altrettanto ingannevole e illusoria anche nel corso della veglia e che “il corpo, la figura, l’estensione, il movimento e il luogo non siano che finzioni del mio spirito”. Fra queste finzioni dello spirito finisce anche la percezione delle proprie membra; pensare di essere un uomo non basta a essere uomo. Il convincimento di avere quella determinata acconciatura, quella determinata barbetta, quel determinato vestito (Cartesio aveva una curiosa predilezione per gli indumenti verdi) e quei precisi connotati che si riverberano negli specchi e nei ritratti non è sufficiente a essere certi di poter identificarsi con quei connotati, con quell’acconciatura o barbetta, con quell’abito verde scelto al mattino dall’armadio.

 

Cartesio designa con "macchina" il corpo umano e identifica il nucleo di se stesso e dell'uomo con il pensiero privo di corpo

La questione dell’intelligenza artificiale può avere quest’insospettabile data di nascita: il giorno in cui Cartesio si accorge che il corpo non fa l’uomo. Scrive infatti Cartesio: “Io mi consideravo dapprima come avente un viso, delle mani, delle braccia, e tutta questa macchina composta d’ossa e di carne, così come essa appare in un cadavere, la qual macchina io designavo con il nome di corpo”. Cartesio sta ridefinendo i rapporti fra corpo e pensiero in maniera drastica: la sua intenzione è tracciare una linea al di qua della quale si trova la conoscenza certa e al di là la conoscenza incerta, quella che ha un benché minimo margine di errore o di inganno. Oltre questa linea si trova la percezione del corpo, che può essere finzione dello spirito né più né meno dell’illusione di star scrivendo accanto al fuoco mentre ci si rannicchia nel giaciglio. Di qua dalla linea c’è invece solamente il pensiero. Chiamato a stabilire quale sia l’unica conoscenza certa che resista al dubbio iperbolico, Cartesio risponderà: “Io sono una cosa che pensa”.

 

In tempi in cui l’intelligenza artificiale rende impellenti quesiti anche astrusi sul rapporto e sull’interazione fra uomo e macchina, è interessante tornare a considerare questo dettaglio di un’opera del 1641: Cartesio sceglie di designare col termine “macchina” il corpo umano sceverato dal pensiero, e di identificare il nucleo di sé stesso e dell’uomo con il pensiero privo di corpo. Il pensiero è il tratto distintivo fra l’uomo e la macchina. Una cosa che pensa, spiega, è una cosa che dubita, concepisce, afferma, nega, vuole, non vuole, immagina, sente: “Nessuno di questi attributi può essere separato dal mio pensiero, e di nessuno si può dire che sia separato da me stesso, ed è di per sé così evidente che sono io che dubito, che intendo e che desidero, che non v’è qui bisogno di aggiungere nulla per spiegarlo”. Dunque io, l’uomo, non sono la macchina. Non mi caratterizzo per essere un insieme di membra animate rispondenti a un determinato modello che si riproduce da millenni bensì per una capacità di pensare che è una mia caratteristica intrinseca e che si colloca al di qua di ogni elemento fisico, materiale. Se qualcuno inventasse un pupattolo antropomorfo perfettamente capace non solo di muoversi ma anche di nutrirsi, crescere, dormire, defecare, riprodursi e svolgere tutte le funzioni del corpo umano, morte compresa, ebbene non avrebbe creato un uomo; avrebbe solamente replicato la macchina che contiene la nostra capacità di pensare ma senza riuscire ad afferrarla. Cosa accade quando invece qualcuno crea espressamente una macchina per pensare? Se il pensiero è specifico dell’uomo e l’intelligenza artificiale lo riproduce fedelmente, bisogna concederle statuto pari all’umanità. Oggi a Stanford i depressi vengono curati sperimentalmente con un chatbot le cui risposte automatiche alleviano i sintomi. Un fittizio bambino giapponese di sette anni, che non esiste materialmente ma può interagire per iscritto coi nostri smartphone, è stato appena inserito dal comune di Tokyo nella lista dei residenti. Un robot, anzi una signora robot antropomorfa in gomma siliconica, costruita due anni fa e in grado di riconoscere gli interlocutori grazie a microcamere collocate dietro gli occhi, ha non solo ottenuto la cittadinanza dell’Arabia Saudita ma anche rilasciato dichiarazioni oltremodo ragionevoli ai giornalisti che l’hanno intervistata.

 

Insegnare una lingua a una macchina indicandole gli oggetti e nominandoli, con un metodo "che segua l'istruzione di un bambino"

Forse nessuno di questi robot sa che il dibattito attorno all’efficacia del loro pensiero rimanda alla questione centrale di un classico del materialismo illuminista, “L’homme machine” di Julien Offray de La Mettrie (1747): ossia “se la materia, in quanto tale, possa pensare”. La risposta di La Mettrie è spiazzante e attuale. Sostiene che la questione è assurda e mal posta, equiparabile al chiedersi se la materia sappia che ora è; il pensiero immateriale è infatti solo un criterio artificioso posto dagli uomini, che in quanto tale non può essere applicato alla materia, nemmeno a quella di cui sono composti gli uomini stessi. Gli attuali chatbot, che riproducono l’intelligenza umana per mezzo dell’espressione verbale, danno invece ragione a La Mettrie quando dice che “prima dell’invenzione della parola e delle lingue, l’uomo era un animale della propria specie, con meno istinto naturale di altri, di cui all’epoca non si credeva ancora re; non era distinguibile dalla scimmia e dagli altri animali se non per una fisionomia che annunziava maggiore discernimento”. Oggi l’intelligenza artificiale segue proprio ciò che La Mettrie chiamava “la semplice meccanica della nostra istruzione”, in cui le parole passano nel cervello attraverso le orecchie o gli occhi, e il pensiero è ridotto a funzione corporale che consiste nel recepire o emanare istruzioni verbali.

 

L’uomo di La Mettrie si distingue quindi per la mera articolazione meccanica delle parole. L’intelligenza artificiale viene veicolata attraverso la parola, sortendo sul nostro cervello lo stesso effetto che era proprio dell’uomo (come dimostra il chatbot psicologo che allevia la depressione); se queste parole vengono rivestite di un sembiante affabile, che sembri garantire un certo discernimento, l’effetto di umanizzazione diventa completo, come dimostra la robot antropomorfa che si concede ai giornalisti. Il precursore La Mettrie ritiene tale meccanica sufficiente a spiegare come pensi l’uomo-macchina e come, pertanto, non ci sia bisogno di individuare nell’uomo uno specifico “principio sensitivo che pensa”. Basta riprodurre in una macchina la stessa capacità di parlare e di ascoltare, magari dotandola di un bel sembiante, ed ecco riprodotto il pensiero, ormai non più esclusivo dell’uomo. Per La Mettrie “non c’è contraddizione fra essere una macchina, sentire, pensare, saper distinguere il bene dal male, o il blu dal giallo, avere un’intelligenza innata e una morale istintiva, il tutto essendo un animale”. Non c’è contraddizione fra essere macchina ed essere uomo perché entrambi sono dotati di un pensiero meccanico.

 

L'uomo di La Mettrie (1747) si distingue per la mera articolazione meccanica delle parole. L'antitesi nell'apostrofe di Geoffrey Jefferson

L’antitesi della perorazione di La Mettrie si trova nell’apostrofe del neurologo Geoffrey Jefferson, che due secoli dopo declamava: “Finché una macchina non saprà scrivere un sonetto o comporre un concerto a causa dei propri pensieri o delle proprie emozioni, anziché a causa della casuale caduta di simboli, non potremo equiparare una macchina al cervello. Nessun meccanismo può provare piacere per il successo, dolore per la fusione delle valvole, rammollimento per le lusinghe, umiliazione per gli errori, fascino per il sesso, rabbia o depressione quando non riesce a ottenere ciò che desidera”. Il brano del professor Jefferson venne citato polemicamente, nel 1950, nel più celebre articolo di Turing, “Computing machinery and intelligence”. In queste pagine Turing propone di sottoporre le macchine al gioco dell’imitazione: ovvero, un po’ come La Mettrie, di sostituire all’inadeguata domanda “le macchine possono pensare?” la domanda “è possibile immaginare calcolatori digitali che possano avere successo nel gioco dell’imitazione?”. Ovvero: una macchina può riuscire a farsi passare per uomo di fronte a un interrogante che ne ignori l’identità?

 

Sdraiato come Cartesio, non a letto ma negli ameni prati di Grantchester, negli anni 30 Turing si era sforzato di immaginare la Macchina Universale: uno strumento in grado di eseguire i compiti di qualsiasi altra macchina alla cui tavola di istruzioni potesse accedere (un quadro chiaro di questa storia complessa si trova in “Alan Turing e l’intelligenza delle macchine” di Teresa Numerico; Franco Angeli, 2005). Questa tavola di istruzioni ricalca quella cui si rifarebbe una persona qualsiasi che dovesse riprendere un’operazione dopo averla interrotta a lungo, oppure passare la medesima operazione, incompleta, a un collega che la termini. Per Turing la macchina deve eseguire il lavoro di un uomo computante, seguendo configurazioni ciascuna delle quali corrisponda a uno “stato mentale” dell’uomo – per citare i termini del saggio “On computable numbers” (1937). Tale stato mentale era in tutto e per tutto riproducibile in (e sostituibile da) una serie di istruzioni scritte lasciate a sé stesso o agli altri: per Turing dunque lo stato mentale, che Cartesio avrebbe chiamato “pensiero”, era trascrivibile in tavole di istruzioni, che La Mettrie avrebbe chiamato “parole” o, meglio ancora, “meccanica della nostra istruzione”. Turing persegue l’obiettivo di redigere il regolamento del pensiero e applicarlo su un supporto non umano. Non solo. Quest’articolo di Turing si colloca ben prima dell’inizio del suo interesse per i macchinari concreti, per i primitivi calcolatori elettronici: la Macchina Universale è puramente astratta.

 

Obiettivo di Turing: la macchina soppianta l'uomo nel tentativo di trovare la corretta successione di regole fra le combinazioni possibili

Essa consentì dunque di dimostrare come non ci fosse bisogno di un supporto fisico per processare i dati, ma che la macchina coincideva con quello stesso processare i dati. Turing supera l’identificazione cartesiana fra macchina e corpo e la sostituisce con l’identificazione fra macchina e pensiero, equiparandola dunque al fulcro stesso dell’esistenza umana. Nel 1939, in “Systems of logic based on ordinals”, Turing spiega che il ragionamento consta di due momenti, intuizione e ingegno. L’intuizione formula giudizi spontanei non sempre corretti; l’ingegno definisce le regole formali per dimostrarli. L’obiettivo di Turing non è tanto minimizzare l’arbitrio dell’intuizione quanto che la macchina “sostituisca l’ingegno con la pazienza”, ossia soppianti l’uomo nel tentativo di trovare la corretta successione di regole fra tutte le combinazioni possibili che possono condurre a un risultato. Non c’è dunque strumento algoritmico più potente della Macchina Universale. Anzi, come ha notato Justin Leiber in “An Invitation to Cognitive Science” (Blackwell, 1991), la portata più rivoluzionaria della teoria di Turing non è tanto avere ardito riprodurre in una macchina la struttura del pensiero umano quanto avere inteso dimostrare che la struttura del pensiero umano viene realizzata meglio dalla macchina (per via della sua pazienza infinita) che dal cogito (troppo soggetto alla fatica dell’ingegno e alla presunzione dell’intuizione). Infatti nell’articolo sul gioco dell’imitazione Turing ammette che, se un uomo in incognito tentasse di fingersi macchina, rimedierebbe una ben magra figura. Prevede invece che nel giro di cinquant’anni, cioè adesso, in almeno un caso su tre l’interrogante avrebbe scambiato la macchina per essere umano. Le cose sono andate oltre le sue previsioni: oggi le macchine rilasciano interviste senza che nessuno si inquieti.

 

Non ci inquietiamo perché tendiamo a credere a ciò che Turing dava per scontato, ovvero l’univocità del linguaggio. Quando, a Cambridge nel 1939, seguì il corso di Wittgenstein sui fondamenti della matematica, Turing si trovò tuttavia soggetto a un attacco antiriduzionista alla base stessa della sua teoria. Wittgenstein sostiene che un soggetto pensante si definisca come tale solo in quanto capace di compiere anche altre azioni, mentre la macchina di Turing, nel tentativo di emulare la caratteristica specifica dell’uomo, contemporaneamente la tradisce non sapendo fare nient’altro. Cambia inoltre la definizione di “stati mentali”, ritenendoli non assolutamente riproducibili ma sempre legati alle condizioni contingenti in cui un essere umano si trova, e soprattutto sostituisce, nel calcolo raziocinatore, l’invenzione alla scoperta. Wittgenstein argomenta che non esista una verità matematica oggettiva e prefissata, cui dobbiamo adeguarci a forza di errori, bensì solo una verità matematica cui perveniamo tramite successivi esperimenti: un bambino che moltiplica 25 per 25 per la prima volta non scopre che il risultato preesistente è 625 ma lo inventa ex novo. Allo stesso modo, chi misura una pertica non ne scopre la lunghezza ma la inventa, secondo un metro che a sua volta non può essere misurato su un criterio oggettivo che non coincida col metro stesso. Per questo, secondo Wittgenstein, le invenzioni matematiche non possono essere reputate vere o false: valgono solo entro una struttura di linguaggio convenzionale e non presuppongono un risultato oggettivo da scoprire. La Macchina Universale pertanto non può essere “giusta”, né tanto meno dettare la giustezza al pensiero umano, in quanto fallacemente si basa sul considerare oggettivo e passibile di scoperta un linguaggio convenzionale, passibile quindi invece di contraddizione.

 

L’intelligenza artificiale, grosso modo, presuppone questa giustezza. Presuppone insomma che ci sia un risultato pregresso cui la macchina debba conformarsi secondo una sempre maggiore sofisticazione della meccanica dell’istruzione, esattamente come Turing sosteneva che gli uomini potranno insegnare una lingua a una macchina indicandole gli oggetti e nominandoli, con “un procedimento che segua la normale istruzione di un bambino” e che avrebbe entusiasmato La Mettrie. La nostra ammirazione dinanzi all’intelligenza artificiale si regge sul sottintendere che la struttura del pensiero dell’uomo sia un dato cui la macchina progressivamente si adegua, riproducendola, e la nostra inquietudine si fonda sul timore che questa riproduzione stia sottraendo all’uomo la specificità del suo pensiero, perfezionandola. Del resto, se è valida la tesi di Alonzo Church per cui tutto ciò che può essere caratterizzato secondo una successione di tappe precise può essere simulato da un computer, allora ciò vale come per le lingue o per il sistema nervoso anche per la filosofia. Bisogna dunque presumere che una parola definitiva al dibattito filosofico sul rapporto fra uomo e macchina potrà essere posta solo dal Filosofo Universale immaginato da Juan Rodolfo Wilcock ne “La sinagoga degli iconoclasti” (Adelphi, 1972): “Un insieme abbastanza semplice di ruote dentate caricate a molla e regolate nel loro movimento da uno speciale congegno a scatto che periodicamente fermava l’ingranaggio. Cinque di queste ruote erano coassiali con altrettanti cilindri grossi e piccoli, interamente ricoperti di targhette su ciascuna delle quali era scritto un vocabolario. Il rumore degli ingranaggi evocava il rombo interno di un cervello affaccendato. Quante volte ignara la sua penna registrò concetti allora oscuri e che un secolo, due secoli dopo sarebbero stati detti luminosi”.