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Nobiltà della scherma

Mauro Berruto

Anche se è un duello a rappresentarne l’essenza, è una disciplina che si ostina a chiamare Maestri i suoi allenatori nel tentativo, meravigliosamente romantico, di conservare il rispetto di un certo sapere

La scherma è uno sport nobile fondato su valori di umanità e lealtà. Anche se è un duello a rappresentarne l’essenza, è una disciplina nel senso letterale del termine che si ostina a chiamare Maestri i suoi allenatori nel tentativo, meravigliosamente romantico e fuori dal tempo, di conservare il rispetto di un certo sapere, di mettere al centro l’uomo e tutelare una figura che ha perso dignità nello sport come a scuola. Non si può non amare una disciplina che ha radici profonde, un codice cavalleresco inattaccabile ed è una miniera d’oro per il nostro paese: sono 125 le medaglie vinte ai Giochi olimpici, di cui 49 d’oro. Ne parla Gabriele Fredianelli, in volume enciclopedico che si legge come un romanzo: Storia e storie della Scherma (Odoya, 2018). Il suo sguardo mette soprattutto a fuoco i protagonisti di quello che Edoardo Mangiarotti (che di medaglie olimpiche ne ha vinte tredici, dunque possiede una certa credibilità) definiva uno sport astratto. L’astrattismo, in arte, esclude ogni rapporto dell’opera dalla realtà, fondandosi su un proprio codice, un linguaggio esclusivo. In questo linguaggio Fredianelli, che peraltro è anche un linguista, ci accompagna per mano, raccontando di Angelo Malevolti Tremamondo, che ispirò le tavole sulla scherma dell’Encyclopédie o di Joseph Boulogne Chevalier de Saint-George, un uomo dalla pelle scura che, nella seconda metà del 1700, maneggiava con la stessa maestria fioretto e violino e con il soprannome di Mozart nero, stregò l’Europa grazie al suo abbigliamento da dandy, cipria sul viso e rossetto sulle labbra, quale eccelso fiorettista, compositore e cavallerizzo. Dal Rinascimento a oggi Fredianelli ci accompagna in un museo senza fine, dove ogni quadro meriterebbe una sosta di ore per permetterci di apprezzare ogni dettaglio.

 

Fermiamoci davanti al capolavoro della vicenda sportiva e umana di Nedo e Aldo Nadi, due fratelli nati negli ultimi anni del 1800 a Livorno. Figli di Beppe il padre Maestro che li introdusse alla scherma, come nelle migliori tradizioni letterarie non avrebbero potuto essere più diversi. Nedo, il maggiore, austero, sempre imbronciato, moralista, lavoratore infaticabile, padre esemplare. Il più giovane Aldo, bello come un attore (lo farà a Hollywood, dove morirà), estroverso, guascone, donnaiolo impenitente. Li troviamo in un libro dal titolo meraviglioso: La vanità della spada, vita e ardimenti dei fratelli Nadi secondo gli appunti di Miss Lisbeth Maples e gli scritti di loro medesimi (Mondadori, 2008) scritto magistralmente (anche in letteratura, vivaddio, ci sono Maestri) da Geminello Alvi. A dimostrazione che lo sport, con le proprie storie vere, supera inarrivabilmente ogni genere di fiction, Alvi narra un intreccio (nei fatti un romanzo) tra vita e imprese agonistiche di due uomini così diversi e che arrivarono a un duello senza precedenti (e senza repliche successive). Tireranno, l’uno contro l’altro, per la medaglia d’oro ai Giochi Olimpici di Anversa, 1920, nella finale della sciabola. All’Egmont Palace della città belga, vincerà Nedo, conquistando così, in quella sola edizione dei Giochi, la sua quinta medaglia d’oro. Pare che il giovane Aldo si aspettasse una qualche forma di generosità nella finale e, sorpreso nella sconfitta, si sentì sibilare a mascella serrata: “Nedo Nadi non arriva secondo”. Chissà i pensieri del brigadiere dei pompieri Beppe Nadi, quel giorno. Qualcosa di simile a ciò che provò Diagora di Rodi, pugile campione olimpico nel 464 a. C., i cui tre figli, anni dopo, vinsero nello stesso giorno a Olimpia nel pugilato, nel pancrazio e nella lotta. Diagora morì ricevendo il loro abbraccio, ucciso dalla felicità. I Nadi completarono le loro parabole di vite così profondamente diverse (a proposito, la Lisbeth Maples del sottotitolo fu proprio una delle amanti di Aldo) dopo aver regalato il momento più epico della scherma italiana, fino al 28 luglio 2012 ai Giochi di Londra, quando Elisa Di Francisca, Arianna Errigo e Valentina Vezzali vinsero oro, argento e bronzo nel fioretto femminile. Si può immaginare qualcosa di più? No, fidatevi.

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