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IL FOGLIO SPORTIVO
Lo stile Juve era anche il lutto per un ex re in esilio
Nel 1983, la Juventus indossò una fascia nera per la morte di Umberto II, l'ultimo re d'Italia. Non solo memoria, ma una chiara presa di posizione politica, simbolo del legame tra la Juve e la monarchia sabauda, e tra la squadra e il potere industriale degli Agnelli
Pisa-Juventus, 20 marzo 1983, Arena Garibaldi. Finirà 0-0, poche occasioni, un pomeriggio qualsiasi di Serie A. Eppure, a rivedere le foto, c’è un dettaglio stonato: tutti i giocatori bianconeri hanno una fascia nera sul braccio sinistro. Non è morto un loro compagno, non un dirigente, non una vittima di strage. È morto un re in esilio, Umberto II di Savoia. Il paese che nel 1946 ha scelto la Repubblica non sa come guardare il fantasma della monarchia e decide di non guardarlo affatto. La Juventus no. La Juventus chiede e ottiene una deroga al regolamento federale per scendere in campo col lutto al braccio per un uomo che la Costituzione considera ancora indesiderato sul suolo italiano. È un atto politico, altro che “stile”. Gli Agnelli non sono monarchici da salotto: Gianni ha giurato fedeltà al sovrano da ufficiale e non ha mai reciso quel legame simbolico, nemmeno dopo il fascismo, le leggi razziali, la guerra disastrosa firmata anche da casa Savoia. Umberto II non è un eroe antifascista, è l’erede di una dinastia che ha accompagnato il regime fino all’ultimo, che ha firmato tutto e poi ha provato a presentarsi come vittima. Il lutto della Juve, in questo quadro, non è un gesto neutro di pietà: è una presa di posizione chiara a favore di una continuità dinastica del potere. Un gesto che costò polemiche, interrogazioni parlamentari ed editoriali indignati. Ma che saldò per un istante la squadra della Fiat alla memoria di un sovrano bandito. Torino, in fondo, aveva solo cambiato palazzo. Persi il trono e la corona, alla città restava un’altra monarchia: quella industriale degli Agnelli. Ed era una monarchia vera, con un proprio esercito – la Fiat – e un proprio reggimento simbolico, la Juventus. Da quando la famiglia aveva preso il controllo del club, nel 1923, la Juve era diventata il laboratorio di un’etica aziendale e dinastica: disciplina, obbedienza, gerarchie rigide, decisioni prese altrove e poi calate nello spogliatoio come un ordine di servizio. Il famoso “stile Juve” nasce qui.
Non è solo sobrietà piemontese, è una pedagogia del potere: non si discute, non si espone il conflitto, ci si presenta al pubblico come impeccabili anche quando tutto intorno brucia. È la stessa cultura che ha permesso alla monarchia sabauda di attraversare il fascismo senza mai rendere davvero conto delle proprie responsabilità. La Juve ne eredita la postura e Giorgio Bocca, che di Torino capiva parecchio, ha scritto che lo “stile Juve” è gemello dello “stile Savoia”: virtù proclamate, potere esercitato dietro le quinte, una certa ipocrisia nel predicare sobrietà mentre si difendono privilegi e rendite. Per questo quella fascia nera del 1983 pesa più di quello che sembra. È un gesto di fedeltà verso un potere sconfitto, contro il silenzio imbarazzato di un paese che provava – malamente – a diventare altro da ciò che era stato. La Juventus, invece, rivendica il legame con i Savoia e con tutto ciò che avevano rappresentato: un’idea di nazione verticale, in cui pochi decidono e gli altri eseguono, possibilmente in silenzio. Questa cultura riemerge due anni dopo, all’Heysel. Nessuna elaborazione pubblica immediata, pochi processi interiori raccontati, lunghissimo silenzio istituzionale. Solo molti anni dopo, con il J-Museum, le celebrazioni annuali del 29 maggio e oggi il monumento “Verso Altrove” vicino all’Allianz Stadium, la Juventus ha costruito una liturgia del ricordo più vicina a quella civile che a quella di corte. Lo si può chiamare pudore, se si è generosi. Più semplicemente, è la stessa logica di sempre: il potere non chiede scusa, gestisce. La tragedia va amministrata, non interrogata. Il lutto diventa cerimoniale, mai processo. In questo senso, il filo che unisce l’omaggio a Umberto II e la gestione dell’Heysel non è una forzatura letteraria: è la continuità di un carattere. La Juventus è stata per decenni la squadra di una dinastia che non si riconosceva davvero nella Repubblica, ma in sé stessa. Ha usato il calcio per prolungare un’idea sabauda di autorità: elegante in superficie, spesso spietata nei fatti, sempre convinta di avere comunque più ragione degli altri. Quel pomeriggio di marzo a Pisa, in uno stadio intitolato a Garibaldi, la squadra della Fiat porta a spasso il lutto per l’ultimo re. Non è solo un paradosso storico: è un avvertimento. Ci dice che nel calcio italiano la memoria non è mai neutra, e che dietro l’apparenza di uno “stile” possono nascondersi opacità, complicità e omissioni che non si vogliono vedere. E, paradossalmente, è proprio questo che la Juventus ha smarrito: una linea, un’idea di sé, sostituita da una fragilità che la rende in balìa degli eventi. Ma il calcio e l’Italia, intanto, sono cambiati per sempre: una famiglia che ha mandato a ramengo l’industria automobilistica nazionale dove può trovare, oggi, la forza e soprattutto la credibilità per ricostruire una cultura dirigenziale?