Gianluca Mancini (foto LaPresse)
Gianluca Mancini è l'ultimo difensore all'italiana
Il difensore della Roma è l'evoluzione del centrale vecchio stampo, quello che le provava tutte pur di annullare l’avversario e contribuire alla vittoria. Un "rompiscatole, competitivo, ma ora gestisco meglio le cose che mi possono portar via energie"
Le sue imprese sono ormai più famigerate che famose. La litigata con Dessers, la trattenuta prolungata che ha provocato la reazione scomposta di Kean, le mani nel sedere di Haaland, il "flirt" con Junior Brumado del Midtjylland, il contrasto a palla lontana con Ramon. Non c’è partita in cui Gianluca Mancini non finisca per grattugiare i nervi di qualcuno: arbitri, allenatori, calciatori, tifosi avversari, commentatori. Tanto che ormai la sua attitudine alla rissa viene considerata parte integrante delle sue caratteristiche tecniche. Proprio per questo è difficile trovare un calciatore più divisivo. Ma anche più frainteso.
Molti lo hanno definito il "nuovo Materazzi". Eppure le entrate sugli avversari del centrale giallorosso non hanno mai raggiunto quei livelli di ferocia (gli interventi di Matrix su Shevchenko, ad esempio, sono diventati col tempo un genere letterario). Quella di Mancini è una violenza più sfumata, quasi mimata, lasciata sullo sfondo, ma comunque pronta a deflagrare contro qualunque avversario. Con il tempo in centrale di Pontedera sembra essere stato risucchiato nella descrizione che Longanesi tratteggiava di Montanelli: "È un misantropo che cerca compagnia per sentirsi solo". Ma anche in quella che sir Alex Ferguson faceva di Dennis Wise: "È uno che riuscirebbe a scatenare una rissa in una stanza vuota".
La verità però è diversa.
Perché Mancini è tante cose e tutte insieme. Ispido, irruento, ruvido, furbo e insopportabile. Ma allo stesso tempo trascinatore, guascone, leader. E, perché no, sicurezza. Un calciatore che è riuscito a farsi sentimento, non sempre in senso positivo, fino a diventare sinonimo della sua stessa attitudine. Mancini pare essere l’ultimo erede di una stirpe che sembrava essersi estinta con Chiellini e Bonucci, quella del difensore italiano vecchio stampo, roccioso, sporco e cattivo, che le provava tutte pur di annullare l’avversario e contribuire alla vittoria. E in attesa di diventare bandiera della Roma, si diverte a sventolare le bandiere della sua Curva. Prima quella con l’effige di Antonio De Falchi, il diciottenne romanista morto davanti a San Siro nel 1989. Poi, dopo aver vinto il derby, quella di un ratto che svetta su sfondo biancoceleste. In un paese che ha trionfato in un Mondiale e in un Europeo grazie alle "intuizioni" dei suoi difensori (la provocazione continua di Materazzi a Zidane e il fallo plateale e antisportivo di Chiellini su Saka), il centrale giallorosso fatica a essere preso sul serio. Roberto Mancini non l’ha portato all’Europeo. Spalletti lo ha tagliato subito dopo la disfatta agli ottavi contro la Svizzera (in cui il romanista era rimasto in campo per 57 minuti). I due anni e mezzo passati sotto la guida di Mourinho sono stati contraddittori. Da una parte il centrale è cresciuto moltissimo proprio in quello che era il suo punto debole: la tenuta dell’avversario nell’uno contro uno. Dall’altra è diventato una macchina programmata per protestare e "imbruttire". Fino a vincere il poco ambito riconoscimento di giocatore più ammonito d’Europa. "Da avversario ti odiavo" gli ha detto lo scorso anno Ranieri, che subentrò a Juric che prese il posto di De Rossi. È una frase che ha aperto un mondo nuovo al difensore. "Sono sempre rompiscatole, competitivo, ma ora gestisco meglio le cose che mi possono portar via energie", ha detto alla Gazzetta. A vederlo non sembra proprio così. Ma è anche vero che Mancini è l’ultimo provocatore, l’ultimo bombarolo rimasto in un calcio sempre più asettico, innocuo, meno sapido. Una specie destinata a estinguersi presto. Molto presto.