Il presidente del Castel Rigone, Brunello Cucinelli, festeggia con la squadra la promozione in Serie C2, 05 maggio 2013. ANSA/PIETRO CROCCHIONI
Il foglio sportivo
C'era una volta il Castel Rigone
Castel Rigone è il più piccolo paese mai arrivato nel calcio professionistico. Uno stadio da ottocento posti, nessun ultras, regole di comportamento chiare. Quando Cucinelli portò la squadra fino in C2. Nessuno era così elegante
Diamo per scontato che il lettore sappia molto o tutto di Brunello Cucinelli, e magari abbia visto “Brunello, il visionario garbato” appena uscito nelle sale. C’è un altro aspetto, un altro miracolo “umanistico”, rimasto fuori dal racconto di Giuseppe Tornatore, che meritava di essere ricordato: il Castel Rigone calcio (tipo Borgorosso Football club, ma all’ennesima potenza). Trattasi della minuscola frazione di Passignano, in Umbria. Cucinelli è nato lì. È la sua Itaca (non di mare, ma di lago, il Trasimeno sta lì sotto), da dove è sempre partito e dove è sempre tornato. In gioventù, oltre al bar (laurea in tressette e scala 40, “l’università della mia vita”), Cucinelli giocava anche nella squadra del paese, Terza categoria (l’ultima) o Seconda, come apice. Chiesto di autodefinirsi come calciatore, si è sempre raccontato così: “Ero uno stopper (i centrali, non esistevano ancora) di quelli che vengono chiamati legnosi, più piede che palla, insomma. Mi ero dato solo un imperativo: mai fare l’amore il giorno prima della partita, ero e sono convinto che non faccia bene”. Autodidatta, anche qui. Non ha fatto alcuna carriera, calcisticamente parlando. Poi la vita è andata come doveva e dove le pareva, e dalla lavorazione e vendita del cachemire colorato sono arrivati il successo, la ricchezza, la fama, oltre ogni umana (e umanistica) aspettativa. Ma il calcio è rimasto sempre un amico fedele.
Nel 1998, già imprenditore rampante, gli chiedono di “far qualcosa” per la squadra locale, in Seconda categoria, tanto per dare lustro e riconoscenza alla terra che l’aveva partorito. Rispose citando il filosofo greco, Senofane: “Dalla terra tutto deriva”. Bene, risposero gli amici, “e forza Castel Rigone”. I soldi li mettono lui e un altro piccolo imprenditore locale, Giancarlo Sargenti, che presto si sfilerà. Il prezzo dell’acquisto del club si riassume in due cene collettive fatte sui tavoli e le panche della sagra paesana. È l’inizio della scalata al calcio che conta. Perché Brunello non fa nulla “tanto per fare”: sogna in grande, l’utopia, il Rinascimento, il capitalismo morale, l’etica, il mercante onorevole, la custodia del creato, la bellezza da conservare e tramandare. E, se ha una squadra, oltre che vincere, deve dare un esempio al mondo. Con lui sempre seduto in panchina nelle partite in casa. Da premettere: siccome Castel Rigone aveva 500 abitanti e quasi tutti over 70, chi gioca? Non è un problema, ovviamente. Brunello mette a disposizione tutto: soldi, appartamenti, strutture, soprattutto passione.
Nei primi tre anni vince Terza, Seconda e Prima categoria. Poi sale in Eccellenza, quindi in Serie D, dove arriva una volta secondo, terzo, quarto, fino a che, nel 2013, sale in C2. Castel Rigone ha un record pressoché imbattibile, è il più piccolo paese mai arrivato nel calcio professionistico. Rimette a posto lo stadio – elegantissimo, una sola tribuna con la copertura in legno – dedicato a San Bartolomeo, patrono del paese, capienza 800 persone, il doppio degli abitanti della frazione. Con conseguenze ovvie. La prima: mai esistiti ultras, né tifosi, nemmeno una bandierina sventolata, giocare in casa o fuori, è la stessa identica cosa. A prescindere dalla categoria, sempre esistite regole chiare ma precise: mai sputare (impensabile addosso a un avversario o all’arbitro). L’importanza del colloquio iniziale: “Prima del calciatore volevo conoscere la persona, quindi si parlava di tutto, della famiglia, della vita, dell’amicizia. Solo più tardi di calcio, del divertimento, del perché avevano scelto questo sport. Se sbagli e prendi uno sfascia spogliatoio, sei finito”. Mai dato un premio per una vittoria (poi magari l’avrà anche dato, ma non si racconta), mentre si narrano di sorprendenti premi per una sconfitta: “Dopo una sconfitta, purché si sia lottato e ci si sia comportati correttamente”. Dalla seconda categoria, e su su fino alla C2, torta di mele e crostate da mangiare insieme agli avversari a fine partita.
Gli spogliatoi lasciati puliti, come si sono trovati all’arrivo. I biglietti a 1 euro, per essere accessibili a tutti. Vietato il nome dello sponsor sulle maglie (diciamo che i soldi non erano un problema), vietati cartelloni pubblicitari. Stadio ovviamente senza barriere, a dividere le tifoserie non divisori in plexigas ma vasi di gerani e orchidee, tra il primo e il secondo tempo, spesso si sfamavano anche i tifosi ospiti, nei periodi natalizi era un turbinio di vassoi con pezzi di panettoni e pandori. In qualsiasi serie ha chiesto e ottenuto di giocare sempre il sabato (“perché la domenica è il giorno da dedicare alla propria famiglia”. No alle esultanze con balli e danze esagerate (“è un’offesa per chi ha subìto un gol”), simulare un fallo, peggio se platealmente, poteva portare alla rescissione immediata del contratto. Etica e rispetto, verso gli avversari e verso l’arbitro. Convinto che l’esempio fosse contagioso. Luca Quarta, insieme a Brunello, è stato l’anima di quell’avventura, recitando tutti i ruoli: calciatore, allenatore e direttore sportivo (o direttore generale, tanto i confini sono labili): “Un giorno, eravamo in Serie D, un arbitro entrò nello spogliatoio per l’appello, senza bussare. Brunello lo invitò a uscire, a bussare e rientrare. Lo fece, un po’ sbalordito, ma quello fece: uscì, bussò e rientrò accolto con i saluti da tutti”.
In ogni categoria, il Castel Rigone lo riconoscevi dalla divisa, elegantissima, indossata da tutti i dipendenti, a prescindere dalla mansione. Ancora Quarta: “Un giorno l’arbitro fermò il giocò e disse al nostro capitano di far uscire i non tesserati dal terreno di gioco, altrimenti lo avrebbe segnalato nel referto e sarebbe arrivata una multa. E indicò un signore che stazionava davanti agli spogliatoi. Il capitano gli rispose che si trattava del custode del campo. L’arbitro trasalì: ‘Un custode così ben vestito non l’ho mai visto’”. L’anno della C2 andò così: 4 punti nelle prime 7 giornate, alla fine del girone di andata quarti in classifica, nel girone di ritorno le perse quasi tutte (13 su 17). Retrocessione, meglio: sparizione. A fine stagione Cucinelli infatti chiude baracca e burattini, costruisce un campo a Solomeo, dove ha fabbrica e uffici, e crea un oratorio laico, dove giocano solo bambini. Molti ex calciatori del Castel Rigone lavorano nella sua azienda, chi come operaio, chi impiegato, chi dirigente. Si vanta di non aver mai licenziato un operaio, ma di allenatori ne ha cambiati (esonerati) diversi, alcuni anche da primi in classifica.
Ogni anno gli propongono di prendere una squadra professionistica (il Perugia, sempre), e lui risponde sempre di no: “È più facile che mi eleggano Papa”. Sa bene del desiderio di vanità dei presidenti e sa anche che “il calcio è pericoloso, a rovinarsi ci si mette un attimo. Il mestiere di presidente ti divora, è una competizione continua contro tutti, eppure non rappresenti solo un club, ma una città”. Sa anche che il calcio è semplice e c’è poco da inventarsi. Un giorno ha detto: “Sono amicissimo del presidente del Liverpool che mi ha confessato: sai Brunello quando abbiamo vinto? Quando abbiamo acquistato giocatori forti”. Ah dimenticavamo: il genero, Riccardo Stefanelli, anche lui ex calciatore del Castel Rigone e marito di Camilla, una delle due figlie di Cucinelli, oltre che ceo del gruppo, siede nel CdA del Milan in quota RedBird.
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