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chiave di A - come suona il campionato

La Serie A ha un grosso problema di infortuni

Enrico Veronese

Troppi giocatori in infermeria e troppi calciatori fuori posizione. Intanto il Napoli di Antonio Conte dà una lezione alla Juventus di Luciano Spalletti

“E ripenso al weekend”, esordisce Francesca Michelin in “Cheyenne”. Quanti infortuni e defezioni nelle squadre di Serie A, più che in passato: un torneo che si sta privando di Kevin de Bruyne, Romelu Lukaku e André-Frank Zambo Anguissa, Dušan Vlahović e Gleison Bremer, Denzel Dumfries e Mimmo Berardi, Giovanni Simeone e Santiago Giménez, Sergi Roberto e Nicolò Rovella, Andrea Belotti e Remo Freuler, Tomas Suslov e Suat Serdar con Zion Suzuki… nessuno pensa mai a quanto impatta l’assenza di prestazioni individuali di tanto nome, magari solo perché c’è chi si erge a eroe del momento.

 

     

“Mi rialzo e poi ricado”, continua la cantante veneta (e juventina) nel featuring per il genoano Bresh: più che un augurio prenatalizio, fa bene al campionato recuperare tutti i suoi effettivi.

   

   

Urge dunque trovare nuove risorse: e chi più di Antonio Conte può intonare con Levante “non me ne frega niente, se mentre rimango indifferente il mondo crolla e non mi prende”?

   

    

Il suo Napoli esegue alla perfezione anche le palle da fermo, si sa sempre reinventare attorno a Rasmus Højlund e David Neres, scopre Antonio Vergara figlio di Frattaminore, uno sballo per la folla vedere in azzurro uno dei suoi. “Fatti bella per te”, diceva Paola Turci a chi essere più forte delle difficoltà

   

   

Conte contro la Juve, Spalletti che torna a Napoli: al di là degli organici, la lezione data ai bianconeri pur combattenti parte dall’undici iniziale, dove Kenan Yıldız ha il compito improbo di seminare zizzania nei paraggi dei tre statuari difensori centrali avversari, là dove Antonio risponde restituendo a Højlund la fiducia poi ripagata. Al titano turco, bravissimo, non si può rimproverare niente e tantomeno di aver cercato di raddrizzare la partita: ma non può fare l’estremo più avanzato di una squadra che tiene in panchina Jonathan David e Loïs Openda, così come il pur volitivo Tommaso Baldanzi - 170 centimetri di altezza per 68 kg di peso - non ha il know-how della prima punta di riferimento, del terminale offensivo d’area, ancorché vecchio stile come Paolo Rossi. Sprecare un patrimonio del calcio italiano fuori dalle proprie dotazioni, peraltro con uno sfiancante lavoro di soma, è parte del problema e non della soluzione: “Tempo aspetterò / per catturare la ragione che non ho / trovato in questo mondo, e al mondo resterò / per poter dire: vivrò” (Andrea Laszlo De Simone, nel nuovo magnifico album).

   

     

Natale si avvicina coi colori indossati dalla Cremonese e le luminarie del Sassuolo, così diverse nei princìpi di gioco e così uguali nella classifica lusinghiera; là dove le crepe della Fiorentina dilagano a livelli psicologici, etici, organizzativi prima ancora che in campo. Situazioni che straniscono come il verde nella seconda maglia della Roma, come l’Inter passata dal dominio dei trentacinquenni alla vetrina per i ragazzi Ange-Yoan Bonny, Francesco Pio Esposito, Petar Sučić, Luis Henrique: anche se il miglior esterno azzurrabile gioca a Cagliari e ha nome Marco Palestra, sperando che Gennaro Gattuso lo abbia già precettato per scalzare l’Irlanda del Nord e provare a vincere in Bosnia o Galles.

Parata finale per Mario Gila e Michael Fabbri, calciatore della Lazio il primo, arbitro zelante il secondo. Gila commette un fallo - anche da giusta ammonizione - nei confronti del bolognese Santiago Castro, poi contesta il cartellino dicendo “sei scarso” alla giacchetta ex nera, che per tutta risposta ne solleva un altro e diventa rosso. Chi è il “bad guy” (cfr. Billie Eilish), a questo punto?

 

 

Un difensore falloso o un arbitro che cambia il corso della partita per sua lesa maestà? Tu da che parte stai, di chi ruba nei supermercati o di chi li ha costruiti rubando?

 

     

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