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il foglio sportivo
La storia infinita di Pellielo, il santo tiratore
"Oggi sto molto bene, chiuso nel mio monachesimo sportivo, e continuo a dissociarmi dai luoghi comuni sull’età. Il primo fucile? Me lo regalò mia mamma Santina”. Il campione italiano del tiro al volo si racconta
L’anno prossimo, saranno 38. Trentotto anni da un episodio, l’episodio, che legò per sempre un figlio a una madre e avviò la carriera di una leggenda dello sport italiano. “Era il 1988, io cominciavo a fare sul serio con il tiro a volo, si vedeva che me la cavavo. Mia mamma Santina, che da anni mi portava a sparare con i suoi fratelli, mi regalò un fucile, il primo fucile serio. Lo pagò un milione di lire, in dieci cambiali da cento. Lei che era separata, lavorava in fabbrica e faceva una gran fatica ad arrivare a fine mese. Quell’enorme sacrificio, fatto per rendere felice un bambino, io lo ricordo ogni giorno, con il nodo alla gola che può immaginare”.
Mamma Santina ha lasciato questa terra nel 2023, qualche giorno prima del torneo di qualificazione per le Olimpiadi di Parigi. Il figlio, Giovanni Pellielo detto Johnny, ricorda un episodio, un altro, che cambiò il corso di quei giorni e, inevitabilmente, di quelli che sarebbero venuti dopo. “Già allora, a 53 anni, mi davano del vecchio. Del resto, me lo dicono da un po’. Mia mamma stava male, il torneo di Baku era la mia ultima possibilità di qualificarmi. Lessi un messaggio su Facebook, di un signore che commentava la mia ambizione di andare a Parigi: “Che bella santa utopia”, la definì così. La cosa mi stimolò: vinsi la gara e andai ai Giochi. Da allora, ogni nuova gara, per me, è sfidare quella bella santa utopia”.
Quella partecipazione ai Giochi olimpici fu l’ottava per Pellielo, come i fratelli D’Inzeo, come Josefa Idem. Nessuno è andato oltre nella storia dello sport italiano. Nessuno, tra gli atleti italiani in attività, ha la possibilità di farlo a Los Angeles, fra tre anni. Nessuno, tranne Johnny. Che nel 2028 ne avrà 58. “Tanti? Troppi? Come diceva Sant’Ignazio, io vivo ogni giorno come se fosse l’ultimo. Sto molto bene, chiuso nel mio monachesimo sportivo, e continuo a dissociarmi dai luoghi comuni sull’età. Perseguo la mia verità, con tanto sacrificio, tengo i piedi per terra, rifuggo il divismo, da umile servo nella vigna dello sport”.
Quattro medaglie olimpiche (nessun altro italiano nel tiro ci è riuscito), quattro ori iridati (anche qui, record), altrettanti europei, 17 vittorie in Coppa del Mondo. La prima, nel 1992, quando partecipò anche alla prima Olimpiade (Barcellona). L’ultima, a luglio scorso, sullo stesso campo di gara, Lonato del Garda. Un’impresa che gli ha consentito di qualificarsi al Mondiale di Atene, un paio di mesi fa, dove, però, è andata male. “Eppure, avevo fatto bene in tutta la stagione, ma succede: io li chiamo gli abissi di un tiratore, come quando fai un doppio zero, vedi buio da tutte le parti, se dovessi descrivere l’inferno me lo immagino così”. Da oggi, ha la possibilità di rifarsi nelle finali di Coppa del Mondo (che si è aggiudicato sette volte) a Doha. E poi poco male, il torneo non metteva in palio carte olimpiche, se ne riparla dal prossimo anno. A Parigi, non entrò in finale per un piattello. “Nessun rimpianto, ho fatto una grande gara, ma non è bastato. Del resto, fare la differenza nel tiro è diventato più difficile da quando si sparano 125 piattelli anziché 200. Dicono che dovevano rendere più televisivo il nostro sport, ma a me pare che altri come il tennis non siano cambiati. I tornei del Grande Slam continuano a giocarsi al meglio dei cinque set”. A Los Angeles, oltre che una partecipazione da record, Johnny rincorre l’oro che gli è sempre sfuggito. “Ma non è un’ossessione: il mio oro lo vinco ogni giorno con l’impegno nello sport e nella fede. E in fondo tanti grandi dello sport sono ricordati quasi più per un obiettivo mancato o un errore clamoroso, come Roberto Baggio, un genio, a cui citano sempre il rigore di Pasadena”.
Del tiro a volo italiano che si appresta a lanciare la volata per i suoi primi cento anni con un nuovo logo e un canale tv, Giovanni Pellielo rappresenta la storia e la cronaca. Nato a Vercelli, cresciuto “a riso e zanzare”, è stato in seminario e ha completato gli studi in Teologia. Voleva diventare prete, ma ha vinto la passione per il tiro. “Così, ho virato sulla chiesa celtica, di cui sono vescovo”.
Per questo binomio, tiro e fede religiosa, in passato è stato deriso. “Per fortuna oggi, nella società civile, c’è più comprensione”. Più di qualcuno, in questi anni, al vescovo Pellielo ha contestato l’uso di un’arma. “Ma io mi sento un miles christi, e il mio fucile è come la spada che San Michele Arcangelo conficca nel dragone. Del resto, il messaggio evangelico è che il bene deve essere armato per sconfiggere il male. Oltretutto, non c’è sport più sicuro del tiro, abbiamo tutti un regolare porto d’armi”.
Atleta delle Fiamme Azzurre, nel prossimo futuro di Pellielo c’è anche la seconda laurea, “in Giurisprudenza, mentre quando andrò in pensione tornerò a ballare il tango, un’altra mia grande passione. Ballo e tiro sono più simili di quanto si pensi, entrambi richiedono di stare al tempo. A 16 anni vinsi il campionato italiano con mia cugina, poi, quando scelsi il tiro, abbandonai perché dovevo andare a letto presto”. C’era una volta un ballerino promettente. C’è ancora un tiratore eccezionale.
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