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il foglio sportivo

È davvero un Giro d'Italia del Pippero

Giovanni Battistuzzi

Come sarà la corsa rosa del 2026? Una corsa più umana e più vera, ma con troppi arrivi in salita

Evviva il Giro d’Italia, evviva la Bulgaria ci ha fatto dono del Pippero / Ruotiamo le dita e uniamo le falangi, questo è il ballo del Pippero. 

 

Quello che è stato presentato il primo dicembre e che prenderà il via l’8 maggio 2026 da Nesebar, Bulgaria, è un Giro d’Italia che ha qualcosa a che fare davvero con il Pippero, la canzone del 1992 di Elio e le Storie Tese: un Giro più umano, più vero.

   

  

Più umano perché rinuncia a quelle salite inutili  – messe nel bel mezzo di una tappa alla maniera di una H nel nome Sonohra, sempre per restare in tema Elio (cercate su YouTube se non avete capito, nda) – buone solo per mettere dislivello come fosse un distintivo. Più vero perché prova a riportare in corsa ciò che c’era un tempo e che da un po’ era stato accantonato in nome di una presunta maggiore spettacolarità. Il tappone montano da oltre duecentoquaranta chilometri, la settima tappa da Formia al Blockhaus; una cronometro abbastanza lunga e veramente da specialisti buona per spaccare in due la corsa, segnare un prima e un dopo: i 40 chilometri della decima tappa da Viareggio a Massa; un su e giù dolomitico non in versione microtappa (anche se 151 chilometri non sono moltissimi, nda), quello che affronteranno i corridori durante la terzultima frazione che unisce Alleghe ai Piani di Pezzè.

 

La presenza di tre tappe da duetremila metri di dislivello su strade rognose e senza lunghe salite, ma con diversi strappi, permetterà poi a chi ama le tappe combattute, quelle dove si corre per la vittoria di tappa e non solo per la classifica generale (che poi spesso è proprio in tappe del genere che si può riscrivere, almeno in parte, la storia di una corsa di tre settimane) di divertirsi parecchio.

 

Potevano essere  tre settimane capaci di far salire la scimmia da grandi corse a tappe già con cinque mesi d’anticipo. Se non è così è per un particolare, per alcuni trascurabile, per altri no (chi scrive è della seconda parrocchia). 

 

Nella sua ultima creazione, Mauro Vegni si è rimangiato, in gran parte, quello che doveva, poteva, essere il suo lascito al ciclismo (italiano). Certo una battaglia silenziosa e nemmeno troppo sbandierata, ma comunque un tentativo di dare la dignità che merita alla discesa nei finali delle tappe di montagna. Per anni Vegni ha provato ad andare contro all’indigestione di arrivi in salita, alla vueltizzazione del ciclismo, ossia la tendenza a piazzare l’arrivo di tappa su di un qualsiasi colle abbastanza ripido. A volte ci è riuscito, altre no, anche perché ogni tanto gli eventi gli hanno remato contro.

 

L’ultimo Giro d’Italia disegnato da Mauro Vegni ha dimenticato tutto questo: tutti gli arrivi delle tappe di montagne della corsa rosa 2026 sono posti a distanza di sicurezza dalle valli, nemmeno le valli fossero zone di orrende malattie. Una rimozione sfrontata di quanto di meglio il direttore del Giro aveva provato a riportare nel ciclismo. Un peccato.

   

(Chi scrive è cosciente che quanto scritto in questo articolo urterà la sensibilità montanara della maggioranza, forse assoluta, di chi segue il ciclismo. Non se ne dispiace)

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