Danilo Gallinari con la Nazionale italiana (foto Ansa)

a canestro

Danilo Gallinari aveva a che fare soprattutto con l'armonia

Marco Gaetani

Il cestista azzurro si è ritirato dal basket giocato. Ha rappresentato l’Italia dominante con la palla in mano anche tra i colossi dell’Nba. Il suo è stato però un percorso accidentato, ricco di infortuni e con numeri impietosi

L’ultimo passo indietro della carriera di un uomo il cui step back è rimasto nella storia della pallacanestro italiana (come da urlo di tranquilliana memoria, inteso come Flavio Tranquillo) è stato decisamente quello meno marcabile. L’età e gli infortuni presentavano il conto ormai da anni e Danilo Gallinari ha detto basta. Trentasette anni sulla carta d’identità, ventuno spesi da professionista, quell’otto-otto-ottantotto mandato giù da tutti come una filastrocca, un auspicio di grandezza infinita che però non ci ha portato alcuna medaglia, l’enfant prodige che illumina sì, ma non alza al cielo nessun trofeo con quella che da tutti era stata definita la generazione d’oro del nostro basket.

Nonostante la pulizia dei gesti tecnici, l’educazione dell’uomo e dell’atleta, siamo in un paese che non perdona nulla a nessuno, figurarsi a chi, come il Gallo, traboccava di talento E allora lui, come Bargnani, come Belinelli, come tutti quelli con maggiore o minore vetrina che sono passati per quelle spedizioni sempre speranzose e mai vincenti, è finito nel mirino di chi è portato a impallinare. Pesa, certo, fa malissimo quello zero alla voce podi azzurri, ed è per questo che al momento di pesare la carriera di Gallinari si passa da una sponda all’altra: chi lo indica a occhi chiusi come parte di una ipotetica top 3 dei migliori giocatori italiani di sempre e chi invece, facendosi forte dei suoi flop azzurri, tra colpe di squadra e drammatici passaggi a vuoto personali, come quello sciagurato pugno rifilato all’olandese Kok in una gara senza senso che gli provocò la frattura del primo metacarpo della mano destra e l’addio all’Europeo del 2017, lo esclude invece dall’Olimpo della pallacanestro azzurra. “Presi singolarmente eravamo oggettivamente fortissimi, abbiamo fatto molto meno di quello che potevamo fare”, ha detto qualche tempo fa Andrea Bargnani, un altro manifesto di quel talento non valorizzato fino in fondo in azzurro.

Eppure, persino più del Bargnani prima chiamata al draft e del Belinelli con l’anello della vittoria del titolo alle dita, il Gallo ha rappresentato l’Italia dominante con la palla in mano anche tra i colossi dell’Nba. Un percorso accidentato, ricco di infortuni. Ma i numeri sono impietosi. Per i critici, però. I punti in regular season sono 11.607, quelli nei playoff 671, una longevità che è lì, rivisitata in tre o quattro salse diverse pur di continuare a sopravvivere in mezzo ai leoni. Almeno un paio di stagioni a flirtare con i venti punti ad allacciata di scarpe eppure la sensazione, fortissima, di essere sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato. Non ha mai avuto la chance di lottare davvero per il titolo e quando tutto sembrava finalmente compiuto, con l’approdo ai Celtics in una stagione in cui era mentalmente predisposto a una stagione da gregario pur di arrivare a dama, l’ennesimo infortunio.

Aveva soprattutto a che fare con la bellezza, Danilo, con l’armonia che in maniera all’apparenza inspiegabile riesce a sgorgare da corpi fuori scala, sovradimensionati per l’occhio che li guarda. Era leggero nonostante la potenza, agile in barba all’altezza. Si è dovuto reinventare anno dopo anno, per far fronte agli acciacchi che lo avevano messo nel mirino fin dal primo assaggio di Nba e non l’hanno mai abbandonato del tutto. Che fosse spalle o fronte a canestro, che avesse la palla in mano o che venisse chiamato a punire un raddoppio col suo tiro da tre piedi per terra, il gesto era sempre immacolato, la minaccia per gli avversari era costante. A settembre, in un Europeo che ci ha sedotto e abbandonato, è parso a lungo sfibrato, arrivato in azzurro quasi fuori tempo massimo dopo una stagione a Porto Rico che sembrava uscita da una canzone di Fossati. L’ultimo canto del Gallo, malinconico, è avvenuto nel disperato tentativo di rimonta con la Slovenia, mano nella mano col più giovane del gruppo, Saliou Niang. Ma è stato, per perfida ironia della sorte, un altro losing effort, come dicono gli americani. E ora l’addio al basket, a distanza di qualche mese da quello di Belinelli. Per le classifiche ci sarà tempo, adesso è il momento dei ricordi.

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