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Il foglio sportivo - IL RITRATTO DI BONANZA

Ivan Juric triste e solitario

Alessandro Bonan

Nell'arco di un anno, l'allenatore croato è stato esonerato per due volte, prima alla Roma e poi all'Atalanta. Durante la sua carriera, è sempre rimasto solo, nella vittoria e nella sconfitta, ma questo suo modo di essere non si concilia con il mestiere che fa

Il mestiere di allenatore è indecifrabile. Se sei buono ti tirano le pietre, se sei cattivo ti tirano le pietre lo stesso. Ma se sei un uomo chiuso, sguardo basso, risposte risentite, silenzi imbarazzati, look da supplente di educazione fisica, non solo ti tirano le pietre, ma nel giro di poco, solitamente entro e non oltre il 10 di novembre, ti licenziano. Ed è quello che è successo a Ivan Juric per due anni consecutivi, prima alla Roma e poi all’Atalanta, senza contare la disastrosa parentesi inglese del Southampton. 

 

Infierire sul povero Ivan sarebbe a mio parere ingiusto, preferisco provare a capire. Juric è un bravo allenatore, con in testa un calcio molto fisico e aggressivo, pur senza eccessi di fantasia. La sua perla resta Verona, dove ha fatto benissimo. Da lì in poi sono cominciati a mancare i grandi risultati, e il suo calcio ha perso di energia spegnendosi lentamente. Ma c’è stato dell’altro, e lo ha riguardato come individuo e quindi anche come allenatore. Trascuro i dettagli, non mi piace rivangare, fatto sta che Juric si è troppo spesso disunito nei rapporti interpersonali, con reazioni spiacevoli che hanno proiettato sull’allenatore nato a Spalato una luce sinistra. Forse l’ho già scritto, ma credo che un allenatore smetta di essere tale quando perde di vista il contesto. Juric mi ha sempre dato l’impressione dell’uomo solo al centro della piazza affollata. Lo guardo dall’alto della mia finestra, e vedo una persona a testa bassa che cammina. Mi colpisce la sua completa indifferenza rispetto al ciò che lo circonda. Ci sono bancarelle che vendono dolciumi, e donne che chiacchierano a voce alta. Ci sono bambini che si rincorrono, e uomini vestiti da operai che trasportano qualcosa dentro un largo recipiente. Juric non degna nessuno di uno sguardo, attraversa la piazza e sparisce dalla mia visuale, inglobato dal resto della folla. Questa immagine serve a spiegare meglio (almeno spero) ciò che penso.

 

La Roma giocava, perdeva, e Juric attraversava il campo a testa bassa, da solo. L’Atalanta giocava, vinceva a Marsiglia (grande partita), e Juric nel frattempo inseguiva Lookman per continuare a litigare mentre nessuno lo degnava di un abbraccio. Insomma, è sempre rimasto solo, nella vittoria e nella sconfitta, nella gioia e nel dolore. Questo suo modo di essere, affascinante per certi aspetti, non si concilia con il mestiere che fa. Un allenatore è ciò che gli altri accettano che sia. E per farsi accettare non è importante snaturarsi, sarebbe un errore terribile, ma farsi capire e soprattutto farsi piacere la natura circostante. Un allenatore, come qualsiasi uomo, non è nulla se non in relazione all’ambiente che è chiamato a frequentare: società, giocatori, popolo della città. Se un allenatore perde di vista il contorno, si smarrisce nella piazza e finisce chissà dove. Solitamente triste, ovviamente solo, e senza neanche una panchina dove andare a meditare.

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