Ansa
Il foglio sportivo
Gonzalo Quesada, il Velasco della palla ovale
Per il commissario tecnico argentino, il suo ruolo consiste per il 70 per cento nella gestione dei giocatori e per il 30 nell'allenamento: “Il rugby è da sempre molto più di uno sport e di uno svago: è una vera formazione umana”
Forse non è il migliore commissario tecnico che l’Italia del rugby abbia mai avuto. Certo è il più vincente. Gonzalo Quesada è stato assunto il primo gennaio 2024 (ma la scelta fu ufficializzata sei mesi prima, durante la Coppa del mondo 2023, durante la quale la Nazionale era guidata dal neozelandese Kieran Crowley, dunque con un tempismo infelice) e ha conquistato sette vittorie, guadagnato un pareggio e patito undici sconfitte. Superando sempre le squadre inferiori secondo la graduatoria internazionale e qualche volta anche quelle superiori. Come sabato scorso con l’Australia: 26-19 ai Wallabies, offrendo una prestazione forte e coraggiosa in attacco, forte e disciplinata in difesa, forte e consapevole di testa.
Gonzalo Quesada. Cinquantun anni, argentino di Buenos Aires, argentino come Julio Velasco cui non ha chiesto aiuto, ma solidarietà, presenza e prestigio, invitandolo a un colloquio con gli Azzurri, poche parole, ma come sempre semplici e illuminanti, proprio alla vigilia del match contro l’Australia. Il rugby come educazione: “Papà giocatore, poi allenatore. Cominciavo appena a camminare quando mi portò sul campo e nel club, che diventarono la mia seconda famiglia, una casa sicura dove scoprii che il rugby è un’altra cosa”. Hindù Club, una polisportiva: “Hockey su prato, tennis, calcio, basket, golf, soprattutto rugby. Perché il rugby è molto più di uno sport o di uno svago: è una vera formazione umana, un aiuto per i ragazzi e i genitori, un progetto comune”. Anche una scelta di vita: “Andai all’università, e intanto giocavo sempre a rugby. Mediano di apertura, anche in Nazionale, i Pumas”. Trentotto partite, quasi 500 punti. “Per l’università rinunciai a un’offerta dal Sudafrica: fu una decisione difficile, ma oggi, a conti fatti, sono più felice per la laurea. E quello stile di vita mi dette equilibrio”. Non più il Sudafrica, ma la Francia: “Narbonne, Béziers, a Parigi con lo Stade Français, Pau, Tolone, il ritorno alle radici, Argentina e Hindù, e ancora in Francia, stavolta da allenatore”. Fino alla chiamata dell’Italia.
Un argentino dopo dinastie di francesi e neozelandesi. Un argentino – si dice nel rugby – è un italiano che parla lo spagnolo e vorrebbe essere un inglese. Un argentino – si disse in Federazione – è latino come gli italiani, e forse ci capisce meglio. Quesada ripartì da zero: “Convocai gli Azzurri, distribuii un formulario anonimo da compilare, con i valori che avrebbero definito la squadra – costanza, passione, ambizione e umiltà –, domandai che cosa rappresentassero questi valori e quale compagno li incarnasse di più e di meno. Mi ritrovai un tesoro di informazioni. Servivano identità, cultura, obiettivi. Chi siamo, che cosa significa essere italiani”.
Il compito da commissario tecnico, per Quesada, è per il 70 per cento gestire e per il 30 allenare: “Mi piace moltissimo il gioco e studiarne l’analisi, cerco sempre di anticipare il rugby del domani, ma più che altro voglio scoprire qualità, caratteri, personalità, riconoscere e fare uscire i leader”. A proposito di leader: messo in discussione il primo capitano azzurro, Michele Lamaro, non dal giudizio dei compagni, ma dal verdetto del campo, Quesada non solo ha confermato lui, ma ne ha nominati altri tre. A proposito di altri leader: “Diego Armando Maradona. Ci siamo conosciuti nel 1999 agli Olimpia, gli Oscar dello sport argentini. Io ricevetti un premio, lui vinse il titolo di sportivo del secolo. Ci siamo rivisti in altre occasioni. Maradona non aveva il giusto stile di vita del rugbista, ma sarebbe stato un mediano di mischia geniale, trascinatore, formidabile”.
Pignolo da giocatore (ossessivo nei millimetri quando sistemava il pallone per calciarlo fra i pali), preciso da allenatore (mai dichiarazioni automatiche e diplomatiche, ma analisi tecniche fredde soprattutto per spiegare errori e mancanze), Quesada sa mantenersi freddo (in tribuna – è lì che si sistemano i commissari tecnici nel rugby – osserva, non sbraita, studia, non insulta), ma ha anche dimostrato di sapersi scaldare (quando l’australiano Carter Gordon ha segnato una meta viziata da un’infrazione che, come ha ammesso il “Sydney Morning Herald”, “l’arbitro Brace è stato l’unico in tutta Udine a pensare che non fosse in avanti”) prendendo a calci un cartellone pubblicitario. E se Sergio Parisse, forse il più autorevole rugbista italiano degli ultimi 50 anni (se non di sempre), che lo ebbe come allenatore allo Stade Français, ricorda che “Quesada non è un allenatore che grida, ma spiega, parla, chiarisce”.
Marco Riccioni, uno dei piloni dell’Italia di adesso, sostiene che “Quesada ci mette sempre nelle condizioni di rendere al meglio”. Quando poi non è impegnato con la Nazionale o non segue le franchigie italiane Benetton e Zebre nei tornei europei, Quesada gira l’Italia per i club, dal Piemonte alla Sicilia, non solo per premiare o presenziare, ma anche per incoraggiare e confortare, rassicurare e onorare chi fra mille difficoltà e carenze cerca di reggere il rugby di base, oggi in grande difficoltà numerica, economica e organizzativa: “Tutto il movimento sostiene questa Nazionale”, ha detto dopo la vittoria contro l’Australia, riconoscendo il valore di chi insegna e diffonde il rugby proprio per quei valori da lui elencati fin dal primo giorno. Costanza, passione, ambizione e umiltà.
Oggi all’Allianz Stadium di Torino (e in diretta tv su Rai e Sky Sport), alle 13.40, l’Italia affronta il Sudafrica, gli Springboks, i primi al mondo. “Noi entriamo sempre in campo – la filosofia di Quesada – per il risultato, ma abbiamo una visione più grande: ispirare con la nostra identità e con i nostri valori”.