Koichi Nakano (foto Getty Images)

bici letterarie

Koichi Nakano, l'imperatore del Keirin

Giovanni Battistuzzi

I 70 anni del campione giapponese del ciclismo su pista e l’arte, dolce e spietata, di pedalare nei velodromi (secondo Marco Ballestracci)

Prima di Barbapapà, Vicki il vichingo e Ufo Robot, o di Holly e Benji e Mila e Shiro, prima del sushi, dei libri di Murakami e dei manga il Giappone apparve ai nostri occhi italiani con la forma di Koichi Nakano. E, almeno a una prima impressione, non fu un bel vedere.

 

Nakano era piccolo, tracagnotto. Aveva le gambe corte e grosse, il busto tozzo, la testa grossa. Camminava storto, un po’ curvo, aveva il passo incerto, di chi non è abituato a camminare troppo, e con le punte dei piedi che buttavano verso l’esterno. Furono pochi passi a dire il vero. Poi tutto cambiò. Perché la bicicletta ha il potere di compensare e di trasformare, ha la generosità di chi sa donare per il gusto di farlo, senza chiedere nulla in cambio, se non due gambe che muovono i pedali. E quelle due gambe corte e grosse sui pedali giravano con grazia e potenza. Quel fisico compatto e sgraziato in sella trovava armonia, eleganza: perché quel fisico era semplicemente fatto per stare su di una bicicletta.

 

Il 7 luglio 1976, al velodromo degli Ulivi a Monteroni di Lecce, fu un’epifania. Koichi Nakano si presentò in pista, primo giapponese a farlo nella Velocità, “e fu subito chiaro che stavo osservando qualcosa di mai visto. Nakano era un’altra dimensione,”, racconta al Foglio Mauro De Giorgi, in quei giorni impegnato come meccanico al velodromo. “In quei Mondiali, Nakano non vinse, non salì nemmeno sul podio”: nella finale per il terzo posto fu battuto dal connazionale Yoshikazu Sugata. “Ma se Sugata era forte, Nakano era un nuovo mondo. Affrontava la Velocità (specialità della pista su tre giri di velodromo: partenza da fermo vince chi passa per primo la linea d’arrivo, nda) in maniera nuova, con uno spirito diverso. Era imprevedibile, sfrontato in bici, faceva cose a cui non eravamo abituati”. Era jazz mentre tutt’attorno suonava il valzer, “era come rispondesse a un suono tutto suo”.

 

Koichi Nakano seguiva davvero un suono tutto suo: “Il momento dell’attacco viene quando senti nell’aria una melodia di koto, tutto il Keirin sta in questo”, scrive Marco Ballestracci in “Nakano. L'impero del Keirin” (Mulatero editore, 192 pp.).

 

Quello di Marco Ballestracci è un romanzo sul Giappone, sul Keirin (disciplina nata lì nella quale i corridori seguono una moto che accelera gradualmente fino a 50 km/h prima di abbandonare la pista e lasciarli correre per tre giri, nda), su Koichi Nakano perché, almeno nel dopoguerra, non c’è Giappone senza Keirin – fu questa disciplina, o meglio le scommesse su questa disciplina, ciò a cui il Giappone si appigliò per uscire dalla distruzione atomica – e non c’è Keirin senza Nakano. Una storia che sembrava disperata quella del paese asiatico, che diventa redenzione anche grazie al Keirin. Ed entra nel romanzo per restare sempre ben presente nello sfondo, trovando un’inaspettata dolcezza di parole e immagini capaci di trasformare i velodromi in un mondo a parte, completamente nuovo. Un’epifania, la stessa che provammo noi europei il giorno nel quale vedemmo correre Koichi Nakano per la prima volta.

 

Koichi Nakano compie 70 anni oggi. In carriera ha vinto dieci titoli mondiali nella Velocità. Probabilmente è lo sprinter più forte di sempre, senz’altro il miglior keirinista della storia. 

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