L'ex allenatore della Juventus Igor Tudor (foto LaPresse)
cambio di panchina
Alla fine ha pagato Igor Tudor per le poche idee e confuse della Juventus
L'allenatore croato è stato esonerato dopo il poco brillante avvio di stagione. Forse ha sbagliato lui, forse non era pronto, senz'altro paga una rosa costruita in maniera sgraziata, sovrabbondante di elementi in alcuni ruoli e drammaticamente corta in altri
Se non fosse stato per la Juventus, per la sua Juventus, probabilmente Igor Tudor avrebbe fatto i bagagli subito dopo Venezia, con l’obiettivo quarto posto afferrato in extremis e una prospettiva fumosa all’orizzonte. C’era un Mondiale per club da giocare che suonava più come un ostacolo che come un’opportunità e alle sue spalle, il gigante di Spalato, non sentiva davvero la fiducia che ha rappresentato la stella polare della sua carriera da allenatore. In passato, in altri contesti, aveva preferito lasciare sul tavolo progetti non condivisi e soldi. Ma quando di mezzo c’è un debito di riconoscenza nei confronti di un popolo e di una società, diventa difficile far comandare la ragione.
Era forse un tracollo annunciato, quello di questa gestione Tudor, iniziata più per mancanza di alternative che per cieca convinzione. Gli obiettivi erano altri, ben più altisonanti: non è certo un caso se adesso occupano entrambi il primo posto in classifica, Conte e Gasperini, la strana coppia di testa che la Vecchia Signora ha scoperto di non poter più sedurre. Ma quando i problemi iniziano a venire a galla, la soluzione più facile è sempre la stessa, cacciare l’allenatore. Il croato viene esonerato così come era capitato a Thiago Motta, e prima di lui ad Allegri. Tornano di moda frasi antiche, pronunciate, guarda caso, dall’uomo che ha di fatto sancito la fine dell’era bianconera di Tudor: “Questa squadra è inallenabile”, disse della sua Juve Maurizio Sarri, che ieri sera lo ha sgambettato allenando un gruppo rimaneggiato e ridotto all’osso dal blocco del mercato che ha frenato la Lazio in estate.
Tudor ha sbagliato perché non ha mai avuto la forza di fare Tudor fino in fondo, di imporre scelte altisonanti sul mercato: impossibile la convivenza tra tre punte, per quanto diverse tra loro, come David, Vlahovic e Openda, specialmente per uno come lui abituato a utilizzarne solamente una, con due uomini a svariare. La resa è parsa evidente in largo anticipo sull’epilogo: alla lettura della formazione di Como-Juventus, con la difesa a quattro schierata a furor di popolo, era già tutto previsto. Si è accartocciato dietro scuse puerili, arringhe poco credibili come quella legata al calendario, quando il suo destino era già scritto. Forse aveva bisogno di un passaggio in più, prima di arrivare alla guida dell’amata Juventus, o forse si continua a sopravvalutare una rosa costruita in maniera sgraziata, sovrabbondante di elementi in alcuni ruoli e drammaticamente corta in altri, con elementi che da mesi viaggiano al di sotto delle loro effettive possibilità. Per non andare a intaccare il suo rapporto con la piazza, Tudor ha preferito bruciarsi, sacrificarsi sull’altare bianconero, e sotto a chi tocca.
Chiunque arriverà, dovrà cercare di mettersi in sintonia con un gruppo che, in diversi modi, ha fallito sia con Motta che con Tudor, allenatori dalle idee tattiche e dall’approccio con il collettivo diametralmente opposti, e allora forse la colpa non è soltanto da rintracciare nel manico. Quel che è in dubbio è che in questa Juve raffazzonata non si vedeva lo straccio di un’idea, soltanto sbavature: quella che ha messo la pietra tombale sull’esperienza juventina di Tudor è una sponda sballata di David su un rinvio affrettato di Perin, che ha dato spazio al mancino del più improbabile dei killer, Toma Basic, uno dei pochi biancocelesti che non aveva allenato nella sua parentesi laziale, dirottato in prestito alla Salernitana. Servirà del tempo, a Tudor, per lenire ferite che non vorrà nemmeno mostrare, abituato a presentarsi come uomo tutto d’un pezzo, come uno juventino d’altri tempi. Tempi che in questo momento sembrano lontanissimi.
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