Mateo Silvetti esulta dopo il gol che ha permesso alla Nazionale argentina U20 di qualificarsi per la finale dei Mondiali di categoria (foto Epa, via Ansa)

Alla scoperta di Argentina e Marocco, le finalisti del Mondiali Under 20

Francesco Caremani

La nazionale sudamericana gioca per confermare la propria grandezza, quella africana per riscrivere la geografia del calcio giovanile. Domenica 19 ottobre si decide chi vincerà la Coppa del mondo di categoria

Domenica 19 ottobre, al Julio Martínez Prádanos di Santagio del Cile, Argentina e Marocco si contenderanno il Mondiale di calcio maschile Under 20. Due squadre che arrivano da universi opposti, due idee di calcio e di destino che si specchiano nella stessa attesa. L’Argentina, la più titolata di sempre, è la favorita naturale: sei titoli, una tradizione che pesa come un marchio. Il Marocco è l’intruso che ha scalato la montagna, l’underdog che ha battuto Spagna e Brasile nel girone e la Francia in semifinale. Una gioca per confermare la propria grandezza, l’altro per riscrivere la geografia del calcio giovanile.

 

L'Argentina U20

La squadra di Diego Placente è costruita per imporre il ritmo e la volontà. L’Argentina ha un modo di stare in campo che sembra voler ricordare, in ogni passaggio, chi è: palleggio corto, movimento sincronizzato, possesso ragionato. Il contropiede non è escluso, ma sempre come scelta, mai come ripiego. I centrocampisti si abbassano, si offrono, fanno da cerniera; gli esterni tagliano dentro, creando linee di passaggio per gli attaccanti mobili. In questo meccanismo fluido, Placente ha trasferito la sua esperienza da difensore: l’idea che l’ordine sia la prima forma di creatività. Le sue squadre non cercano solo la bellezza del gioco, ma la calma dentro la tempesta. In queste settimane, l’Argentina ha mostrato solidità e maturità, vincendo con misura e pazienza: due a zero al Messico, uno a zero alla Colombia in semifinale, prestazioni pulite, chirurgiche, senza concedere troppo. È una squadra che sembra sempre sapere cosa sta facendo, anche quando soffre.

  

Il Marocco Under 20

Il Marocco, invece, vive di scarti, di energia, di resistenza. Non ha lo stesso talento diffuso, ma possiede un equilibrio raro. Mohamed Ouahbi, il tecnico belga-marocchino che l’ha costruito pezzo per pezzo, lo ha detto più volte: “Non abbiamo bisogno di dominare, abbiamo bisogno di esserci”. E c’è riuscito. Il suo Marocco è un organismo che si muove insieme, accetta di rinunciare a lunghi momenti di possesso, ma non all’intensità. Difende con rigore, riparte con ferocia. Ogni recupero palla è un’occasione per colpire. Il modulo di base, un 4-3-3 elastico che a volte si chiude in un 4-4-2 compatto, è pensato per sfruttare gli spazi aperti alle spalle delle difese avversarie. Gli esterni sono il motore, i centrocampisti leggono, e davanti c’è Maamma, talento franco-marocchino del Watford, che unisce forza fisica e intuito. Intorno a lui girano Hossam Essadak, prodotto dell’Accademia Mohammed VI, e Yassir Zabiri, ala veloce e affilata. Ma la vera stella, in questo torneo, è stata Abdelhakim El Mesbahi: il portiere che ha parato il rigore decisivo contro la Francia, trasformandosi in simbolo di una squadra che non molla mai.

  

Chi guida Argentina e Marocco al Mondiale Under 20

Placente e Ouahbi sono due allenatori quasi agli antipodi, ma con un punto in comune: la capacità di tenere i loro ragazzi dentro l’idea, nonostante la pressione. Placente è un formatore, un uomo che conosce la storia argentina e ne sente il peso; il suo lavoro è stato più psicologico che tattico, convincere i giocatori a non farsi divorare dal mito. Ha perso alcuni dei migliori – come Echeverri e Mastantuono, trattenuti dai club – ma ha trasformato l’assenza in coesione. Ogni partita ha mostrato una squadra che cresce, che non cerca eroi, ma un sistema di fiducia. Ouahbi, invece, ha costruito il suo gruppo come una famiglia. Conosce la fragilità e la fame dei suoi ragazzi, molti dei quali sono cresciuti tra Francia, Belgio e Olanda. Ha lavorato più sulla mentalità che sui moduli: facendogli credere che la distanza tra Rabat e Santiago si misura in allenamenti, non in miracoli.

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