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Il Foglio sportivo

Il benzinaio che una volta marcò Pelè

Mario Frongia

La storia di Giuseppe Tomasini dallo scudetto con il Cagliari di Riva alla pompa di benzina. "Il calcio è fantasia, non una roba meccanica", dice

"Pelé? L’ho marcato per caso. A due ore dalla partita Scopigno mi dice: Cera è rientrato stanco dalla Nazionale. Beppe, lo prendi tu. Ci provo, rispondo. Un alieno. Non capivi mai dov’era. Ci ha fatto gol dopo cinque minuti: ha stoppato una palla come nessun altro umano, ha saltato me e fintato Albertosi. Palla a destra, Ricky a sinistra”. Giuseppe Tomasini e un pallone in bianco e nero. Con emozioni a colori. “A quattordici anni ero in fabbrica alla Marzoli, macchine tessili. Prendevo ventimila lire al mese. Se mi guardo indietro? Sono un uomo sereno”.  L’amarcord, a 55 anni dallo scudetto. Sette anni di Serie A, amichevoli top (“Ho giocato anche contro  Jascin!”), un viaggio di sudore e fatica. Da Palazzolo dell’Oglio alla Sardegna: “L’idea Cagliari non mi piaceva. Venivo da buone annate a Brescia e Reggio Calabria. Era destino: papà veneto, madre leccese. Lavoro, nebbie e terra”. Classe ’46, tempra da condottiero: “L’anno dello scudetto prendevo venti milioni di lire. Ho giocato fino al ’78. Avevo 31 anni, infortuni, tre distorsioni al ginocchio. Benetti? Romeo non c’entra. Con il Milan era una gara tesa, sono stato avventato nell’anticiparlo. Lui si è protetto”. 


Il profumo dell’erba, i settantamila di San Siro, le litigate da capitano con Concetto Lo Bello, le otto stagioni in A con i Quattro mori. Umori forti. Ma passa subito. “Sono andato in pensione con 500 euro: colpa mia, non ho riscattato come dovevo”. Tomas, come lo chiamano in città, volta pagina. Si parla di fuoriclasse. “Avversari immensi come Pelé ed Eusebio, velocissimo. Raddoppiavo gli sforzi per arginarli, ma non bastava. Ma dico Rivera: il più intelligente incrociato nelle mie duecento gare da professionista. Non aveva la palla e sapeva già cosa fare”. E i bomber? “Pietruzzo Anastasi. Imprevedibile. Per prenderlo andavo a destra, Niccolai a sinistra”. Nella stagione 1969-1970 il tricolore bacia l’isola. Una foto storica, culturale e sportiva. Di fatto, un inimitabile riscatto sociale. “Aspetta! Potevamo vincerlo anche l’anno prima, non ci abbiamo creduto. Poi, come dice Boninsegna, che li ha contati, la Fiorentina ha avuto nove rigori dubbi. Artemio Franchi era il loro presidente, aveva tanto potere. Non dico altro”. L’anno dopo lo scudetto veste rossoblù. “La festa di una regione e dei suoi emigrati. Dopo il 2-0 al Bari ricordo le risate con Walter Chiari e Alida Chelli a casa del presidente Arrica. Eravamo un gruppo pazzesco! Il premio scudetto? Sui cento milioni di lire, compravi due, tre appartamenti”. 


Quel Cagliari gioca bene e ha il record di gol subiti, 11. “Con Scopigno tutto era facile. Poche parole, meno ritiri, sceglievi come vivere. Giocai libero per fare spazio a Niccolai”. Sul capitolo Nazionale, poche storie: “Gigi tornava da Coverciano e ci diceva che Valcareggi ci avrebbe voluto in Messico. Mi sono rotto il ginocchio. Amen”. Leader, compagno fidato in campo e fuori. “Ero attento e determinato. Piero Cera era più tecnico. Poi, avevamo Riva: il 3-1 all’Inter a Milano diceva che potevamo fare il bis. Gigi viene fratturato al Prater, tutto si complica”.  Rombo di tuono, dunque. “Avevamo un’intesa silenziosa e puntuale. Ho perso un fratello”. Pausa. “Voleva che diventassi direttore sportivo. Rifiutai: “Gigi, appena tu litighi o vai via, sono il primo che cacciano! Per un po’ ho fatto il vice di Toneatto. Osvaldo Bagnoli mi chiese di seguirlo. Bei mestieri, ma prima o poi metti mano alla dignità, si diventa un po’ ruffiani. Ho detto no”. La storia siamo noi, canta Francesco De Gregori. Quella di Tomasini è lineare: “Ho ripreso da dove ho iniziato da ragazzino: sveglia alle 6.30, piazzale di una stazione di servizio fino alle 19. Ho scordato subito alberghi stellati e auto di lusso: il 9 maggio del 1978, il giorno che è stato ritrovato il corpo di Aldo Moro in via Caetani, ho preso in concessione la stazione di servizio Ip”. Cagliari, viale Monastir 150. Dal pressing su Mazzola e Peirò ai quattro milioni di litri di benzina venduti. “Anche diecimila al giorno, riscuotevo cento milioni di lire i primi del mese. Il trucco? Avere testa e stare lì: Martiradonna con il distributore Agip ha avuto problemi perché si allontanava per allenare gli Allievi del Cagliari”. Beppe riflette e sceglie. “Fare sacrifici non mi è pesato. Avevo moglie e due figli, qualche fastidio fisico. Ho lasciato dodici anni fa. I sardi? Fieri e orgogliosi. Apprezzano e rispettano chi si dà da fare”. Si ripassa dal calcio. “Troppe partite, troppa tv. Il business prevale, spesso la tecnologia non aiuta come dovrebbe. Il calcio è fantasia, non roba meccanica. I tifosi applaudono chi ha tecnica, inventa, diverte. Il Cagliari di oggi? Avrei tenuto Davide Nicola, la scommessa del presidente Giulini su Fabio Pisacane ha pro e contro. L’organico va rinforzato. Aspettiamo con fiducia”.

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