Muhammad Ali contro Joe Frazier a Manila (foto Mitsunori Chigita per Ap, via LaPresse)

il foglio sportivo

L'ultima smargiassata di Muhammad Ali

Fabio Tavelli

Quando a Manila, cinquant'anni fa, prima di Joe Frazier fu costretto a combattere con la moglie Belinda

Narra la leggenda, ma anche qui come in tutte le leggende qualcosa di vero ci deve proprio essere, che il Campione prima di incrociare i guantoni per la terza volta con Joe Frazier si sia trovato a dover combattere un match impari tra le quattro mura della sua suite d’albergo a Manila. Sono passati cinquant’anni, mezzo secolo da quello che forse è stato l’incontro più bello di tutta la carriera di Muhammad Ali. Certamente il più violento, superiore agli altri due match iconici di The Goat. A quello di Miami, 1964, quando un giovanissimo e poco considerato, nonostante l’oro olimpico di Roma ’60, Cassius Clay mise in ginocchio il fino ad allora considerato imbattibile Sonny Liston. Ed anche superiore a Kinshasa 1974, il celeberrimo Rumble in the jungle. Sì, il terzo episodio di una trilogia degna di Star Wars tra Alì e Frazier può entrare nel pantheon delle più belle sfide della storia del pugilato. E probabilmente dello sport in generale.

 

Già, ma del match in albergo? L’antefatto va raccontato con dovizia di particolari. Al tempo Alì, non esattamente un fulgido esempio di fedeltà coniugale, era sposato con Belinda.

 

Il Campione era un fulmine tra le corde, volava come una farfalla e pungeva come un’ape e non disdegnava una certa rotazione nelle compagnie femminili. La prescelta per accompagnarlo fino nelle Filippine era stata una modella chiamata Veronica Porsche. Va detto che Ali di alcune delle sue occasionali frequentazioni poi si affezionava davvero. Al punto che Veronica diventerà ufficialmente sua moglie una volta che il rapporto con Belinda finì. Non prima però di una sfuriata memorabile avvenuta, appunto, in campo neutro asiatico. Ali tanto era bravo con i guantoni, e con molto altro, quanto era però un tantino ingenuo nel non considerare i rischi ai quali si esponeva un personaggio del suo calibro a livello di relazioni sociali. Aveva portato Veronica in aereo accanto a sé e in albergo anche. In puro stile smargiasso aveva anche acconsentito che lei si presentasse accanto al Campione a una serata di gala organizzata dal dittatore filippino, Ferdinando Marcos, per celebrare la grandezza, sua in primis, dell’incontro di pugilato che aveva deciso di regalare al suo popolo. Popolo che era allo stremo delle forze in una situazione economica disastrosa e che in più si doveva sorbire la favoletta della signora Imelda, moglie del tiranno, che collezionava un numero inenarrabile di paia di scarpe pur essendo dotata, come il resto del mondo umano, di due piedi soltanto. Marcos aveva altro di che occuparsi rispetto alla riconoscibilità delle persone dell’entourage di Ali e quando vide il più grande arrivare a Palazzo con il suo seguito non poté non salutare con un deferente inchino quello spettacolo della natura rappresentato da Veronica. Marcos, non udibile da Imelda, si lasciò scappare un “complimenti per la sua bella moglie” rivolto ad Ali. Frase, purtroppo per Muhammad, captata da orecchi non discreti, e certamente non amici, e riportata paro paro sui giornali americani. Che, purtroppo per The Goat, Belinda aveva l’abitudine di leggere.

 

Ci mise pochissimo, Belinda, a prendere il primo aereo in direzione est e a organizzare di vedere quanto prima il marito. Incurante delle ore di volo e del fuso orario non esattamente assorbito, Belinda appena scesa dall’aereo chiamò un taxi. La seconda telefonata la fece al centralino dell’hotel dove alloggiava l’ignaro malcapitato. Il quale, ricevuta dal centralino la comunicazione di una chiamata in arrivo da parte di chi non avrebbe aspettato, sentì pronunciate dalla moglie le parole che ogni marito con un minimo di coda di paglia non vorrebbe mai udire: “Noi dobbiamo parlare”. 

 

Fin qui la storia. Da lì in poi inizia la leggenda. Ali aveva affrontato picchiatori tremendi come Liston, due volte, Foreman, Norton e Joe Frazier (due volte prima di Manila). Ma il racconto di chi era nei dintorni della suite del Campione segnala come questa volta Ali non poté usare le corde per appoggiarsi e scappare via e men che meno intimidire l’avversario con i suoi giochi di parole. Le prese e basta. Fu un, diciamo, allenamento agonistico molto probante prima di incrociare nuovamente Frazier. Che, per fortuna di Ali, a differenza di Belinda che si disimpegnava a mani nude, combatteva con i guantoni (quelli che gli diedero l’appellativo di “Smockin’ Joe”, ovvero non quello che fuma, ma che fa fumare i sacchi percuotendoli in allenamento).

   

Passata la tempesta-Belinda, Ali si concentrò giusto un paio di giorni prima di salire tra le corde dell’arena di Quezon City, area metropolitana di Manila, per un gong che era previsto alle dieci del mattino (per garantire la copertura televisiva in seconda serata alle tv americane) con una umidità da record del mondo. Ali al solito aveva usato le tinte forti per caricare il match. La cosa più gentile che aveva detto di Joe era: “Gorilla”. Si inventò che quello sarebbe stato “The Thrilla in Manila”. Alla cerimonia del peso se ne uscì urlando in slang che: “Sarà un killa (un omicidio), un chilla (un brivido) e un thrilla (un’emozione) quando a Manila batterò il Gorilla”. Era fatto così, piaceva anche per questo. Il romanzo finale di quello che avrebbe, a posteriori, dovuto essere il suo ultimo incontro fu un vero thriller (in questo era stato buon profeta). Ultimo match perché secondo il dottor Pacheco furono gli sganassoni presi da Frazier a certificare l’inizio della malattia (morbo di Parkinson) che lo avrebbe lentamente, ma inesorabilmente fiaccato. Ed anche perché andarsene da vincitore dopo Manila avrebbe evitato ad Ali alcune pietose esibizioni contro Holmes e Berbick, utili per raccattare gli ultimo dollari, ma tremende per l’immagine del Campione.

 

Tornando a Manila, la leggenda, anche qui, dice che Joe quando si sedette dopo la 14esima ormai completamente cieco per il gonfiore degli zigomi procurato dalla botte prese cercò di impedire a Eddie Futch, il suo secondo, il getto della spugna. “Don’t stop this fuckin’ fight”, pare abbia urlato per chiedere ancora tre minuti di combattimento. Ignaro del fatto che all’altro angolo l’esperienza di Angelo Dundee, il vero angelo custode del Campione, gli aveva suggerito di non ascoltare la richiesta di Ali di tagliare le corde dei guantoni e darla su definitivamente. The Goat era talmente rintronato da non avere nemmeno avuto la forza di esultare quando Futch lanciò il suo asciugamano in mezzo al ring. Quel che invece confermò sempre, Ali, fu che quell’incontro era stato “la cosa più vicina alla morte che mi sia mai capitata”. Thrilla in Manila, 50 anni di una storia eterna entrata di diritto nella leggenda. 

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