L'abbraccio tra Khéphren Thuram e Francisco Conceição (foto Getty Images) 

Quegli Amleto della Serie A

Davide Ferrari

Che cosa c’è di più umano del rapporto padre-figlio? Cosa significa davvero essere “figlio di”? È un privilegio, come molti sostengono di questi tempi accanendosi su un certo Maldini, o una condanna? Per tentare di dare una risposta si può partire dalla Juventus

A prima vista sembra che Shakespeare e la Serie A c’entrino come una buona prestazione di Koopmeiners con la maglia della Juventus e un campo da calcio. Ma quando in panchina hai uno che di cognome fa Tudor, le due cose sono più vicine di quanto possiamo pensare.

 

A prescindere dal bardo di Stratford-upon-Avon, sia il teatro sia il calcio raccontano così tanti episodi di passioni e tradimenti, di ambizioni e cadute da poter riempire scaffali di libri. Anche uno stadio assomiglia a un teatro. Se non proprio a tutti, almeno al Globe Theater di Londra che non a caso fu soprannominato "the wooden O", la O di legno, e aveva uno spazio aperto al centro per far entrare la luce naturale. Gli spettacoli potevano iniziare al mattino per finire nel tardo pomeriggio. Nulla in confronto ai tre/quattro giorni in cui viene spalmata una sola giornata di campionato.

 

Allo stadio i tifosi sostituiscono il coro, gli allenatori i registi, i giocatori gli attori protagonisti. Il calcio non è solo sport. È narrazione, pensiero, dramma, batticuore. Se Shakespeare avesse visto Inter-Juventus o Juventus-Borussia, forse neanche lui, pur abituato ad ammazzamenti e stravolgimenti vari nelle ultime pagine dei suoi drammi, avrebbe retto.

 

La Serie A, con le sue rivalità e le sue dinamiche, è un palcoscenico perfetto per raccontare l’umano. Ha avuto i suoi Macbeth, ambiziosi che cadono per eccesso di potere (noi juventini ne sappiamo qualcosa), i suoi Otello, traditi da chi credevano amico (chiedere agli interisti cosa pensano di Lukaku), i suoi Re Lear, vecchi campioni che non vogliono cedere il trono (e guardando questo Modrić viene da dire "meno male!"). Proprio come davanti a uno spettacolo teatrale, il pubblico non è mai neutrale: applaude, fischia, giudica. Funziona così.

 

Ma c’è dell’altro. I figli d’arte. Che cosa c’è di più umano del rapporto padre-figlio? Visto che, ammesso che sia esistito, Shakespeare due cose le sapeva scrivere, vuoi che non abbia affrontato anche questo argomento, sul quale peraltro, i tifosi della Vecchia Signora sono abbastanza ferrati, specialmente negli ultimissimi anni? Come non pensare a Chiesa e al dubbio amletico della cessione? O a Tim Weah che non ha ancora disfatto la valigia dell’attore e si è già fatto notare sul palcoscenico della Champions contro i mattatori del Real Madrid?

 

Ma il figlio d’arte per eccellenza è Amleto. E, visto che spesso i personaggi teatrali non hanno cognomi, Shakespeare, per sottolineare che la faccenda del confronto è spinosa e per non mettere nessuna pressione psicologica al suo giovane personaggio, ha pensato bene di chiamarlo proprio Amleto, come suo padre, senza neanche un Jr. per differenziarlo, come un qualunque Neymar insomma.

 

Ma cosa significa davvero essere “figlio di”? È un privilegio, come molti sostengono di questi tempi accanendosi su un certo Maldini, o una condanna? Nella tragedia shakespeariana il principe Amleto si aggira tra le ombre di un padre ingombrante, un re assassinato, un ideale irraggiungibile. Ogni suo gesto è un interrogativo, ogni sua parola un’eco di ciò che fu. Così, sul campo, si muovono Khéphren Thuram e Francisco Conceição, eredi di nomi che pesano come corone e goleador nelle ultime due partite. Chi di noi non si è mai confrontato almeno una volta con il fantasma dei propri genitori? Quando appare, il padre di Amleto ammonisce, guida, ma non lascia spazio. È il passato che non si può ignorare. Il cognome è spettro e scudo: protegge dai dubbi, ma impone aspettative. È così per tutti. Figuriamoci per un ragazzo che gioca in serie A. E dunque ogni dribbling riuscito è una battuta ben fatta, ogni gol un monologo ben recitato. Ogni partita un banco di prova.

 

Come il principe di Danimarca, i giovani bianconeri si fanno in quattro per definire sé stessi: cercano il proprio passo, il proprio stile, in una squadra che difficilmente perdona stecche o esitazioni. Lo stadio è la loro piccola Elsinore, ogni partita un atto di un evento personale e collettivo. Ma se Amleto finisce senza scampo in tragedia, il calcio offre redenzione un paio di volte a settimana. Un gol può riscrivere il copione, un assist può spezzare la maledizione del paragone. Ma poi, al di là delle parole, la pressione è proprio di questi ragazzi o di chi guarda dalla platea e deve per forza trovare qualcosa da dire? Forse, per loro, come per tutti i bambini che giocano, quel che più conta è lo sguardo di un padre dalle tribune che con gli occhi li spinge. Quando inquadrano Thuram senior che segue i figli sul campo, nel suo volto c’è qualcosa di poetico e profondo. E vuoi che Shakespeare non avesse già pensato i pensieri del vecchio Liliam in un suo celebre sonetto? Come un vecchio padre si diletta / alle giovani prodezze del suo vispo bimbo, […] / nel tuo merito e virtù trovo ogni mio conforto; […]. / Quanto c'è di meglio, quel meglio a te lo auguro: / questo è quel che sento, dieci volte me felice! 

 

Poi, per la verità, il caso di Thuram, come quello della dinastia Maldini, è più unico che raro. E sarebbe bello se un giorno Khéphren rifinisse per Marcus. Che sia nella Juve poco importa.

   

Però almeno, dopo un gol, saranno liberi di esultare o ridere come fratelli senza sentirsi le ramanzine dei critici. Una risata, anche quella dopo un gol subito dall’uno o dall’altro, è sicuramente meglio che menarsi, o menare i figli (degli altri) che giocano nelle squadre avversarie. Perché poi, il calcio, pur milionario, resta un gioco. Ma non solo quando fa comodo. Tutto il resto è silenzio.

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