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Il Foglio sportivo
Che cosa blocca la crescita dei giovani? Viaggio nel calcio dilettantistico
Il vero problema è la sostenibilità economica: bilanci in affanno, costi alle stelle e giovani talenti schiacciati da un sistema che imita il professionismo senza averne i mezzi
I genitori che picchiano i ragazzi in campo, le risse, gli arbitri-ragazzini insultati a morte? Sì, è vero, sono episodi incresciosi, ma ci sono sempre stati e forse in passato era ancora peggio. Solo che ora sono amplificati e distorti dai social e finiscono sulle prime pagine dei giornali. Ma se vogliamo essere obiettivi, i problemi del calcio giovanile e dilettantistico non sono solo questi, che sono più che altro degli effetti derivati. La realtà è che le piccole società rischiano ogni anno di fallire perché non reggono i costi, perché il dilettantismo scimmiotta il professionismo e così facendo mortifica anche il talento di tanti giovani”. La confessione di un socio-proprietario di una delle 11.000 società che compongono questo universo sportivo tanto diffuso quanto poco conosciuto, apre uno squarcio che si estende alla realtà dell’intero calcio nazionale, dai Primi calci alla Serie A. Il papà che colpisce il giovane portiere che ha aggredito il proprio figlio e l’apprensione di un sistema che rischia di non qualificarsi al Mondiale per la terza volta consecutiva, sono elementi forse più interconnessi di quanto non si potrebbe pensare a prima vista, e riflettono anche lo stato di salute del settore dei giovani e dei dilettanti.
Ma andiamo con ordine. Il primo fondamentale nodo – e non può sorprendere – è quello economico. Il bilancio di una società dilettantistica di taglia media, ovvero con circa 200-300 giovani calciatori tesserati e una prima squadra che può andare dalla Terza Categoria all’Eccellenza o alla Serie D (quest’ultima è però in sostanza un campionato professionistico) può posizionarsi sui 400-500 mila euro. Anche di più se la prima squadra milita in una delle categorie superiori. Le voci di spesa sono parecchie e una delle principali riguarda la bolletta dell’energia, dove si può arrivare fino a 80mila euro per stagione e oltre. Poi ci sono i tesseramenti, i materiali vari, come abbigliamento e così via (un pallone costa mediamente tra i 12 e i 15 euro, e guai a chi li spara oltre le recinzioni...). Gli allenatori, come gli istruttori di tutti gli sport, vanno pagati: parliamo di figure che spesso hanno competenze in scienze motorie e altre discipline (o dovrebbero averne) e che hanno maturato (o dovrebbero aver maturato) patentini vari. In questi casi si tratta di rimborsi di poche centinaia di euro, 150-300 euro al mese, paradossalmente anche di meno nel caso di società di maggiore fama, che pagano attraverso il “prestigio” che discende sui propri tesserati.
Tuttavia, la spesa più consistente riguarda le manutenzioni. Nella quasi totalità dei casi le società dilettantistiche e giovanili sono titolari di concessioni comunali relative a tutte le strutture che utilizzano: i centri sportivi che comprendono spogliatoi e campi da gioco. Le concessioni non sono in sé molto onerose, qualche migliaio di euro all’anno, ma la loro durata e lo stato delle strutture sono lasciate alla discrezione dei Comuni, che tra l’altro non sono quasi mai disposti a spendere. Così, se si rompe la caldaia o il tubo dell’alimentazione idrica o la fognatura, ballano migliaia di euro di “altre spese” in carico alle società. Soprattutto, sempre in tema di manutenzioni ed investimenti, in gioco ci sono i campi. Rifarne uno in materiale sintetico richiede un investimento di 300 mila euro che può arrivare a 5-700 mila euro se si vuole un terreno di maggior qualità, che sia cioè anche “omologato” per le categorie agonistiche. E se le concessioni sono troppo brevi o se il Comune non contribuisce, la spesa può diventare un onere eccessivo per molti club. Come si coprono tutte le uscite? Per lo più con le iscrizioni e i tesseramenti (3-400 euro per ragazzo), in misura minore con la biglietteria, animata da parenti e amici (5-6 euro a partita), con gli sponsor (dalla pizzeria al piccolo esercizio o attività che cerca visibilità), con l’affitto dei campi per il calcetto o il padel (chi ce l’ha o ci ha investito) e anche con il bar-ristoro (chi ha il permesso).
Tutto sommato, se non fosse per le prime squadre, i bilanci potrebbero anche essere in pareggio o vicini a esserlo. Già, le prime squadre. “Sono le prime squadre che fanno fallire le società, perché sono solo fonte di debito senza apportare ricavi, oltre a bloccare la crescita sportiva di tanti giovani talenti che a 18-19 anni si vedono la strada sbarrata dai numerosi falsi dilettanti. Non di rado molti calciatori scendono dalle categorie professionistiche o da categorie comunque più elevate in cambio di compensi spacciati per rimborsi spese”, spiega il nostro socio-proprietario. Ed è proprio qui che la foglia di fico del dilettantismo rischia di cadere: con i contratti co.co.co da mille, duemila e in qualche caso anche tremila euro al mese offerti a giocatori di qualsiasi età ingaggiati dai presidenti per elevare il livello tecnico della prima squadra di turno, preservare o migliorare la categoria e di conseguenza anche il prestigio dei proprietari. Che sono spesso piccoli imprenditori o titolari di attività economiche varie, che spinti da passione, amor proprio, ricerca di notorietà locale e visibilità, si trovano a imitare i De Laurentis, i Moratti o i Florentino Pérez sborsando 100-200 mila euro l’anno solo per la prima squadra. Salvo poi trovarsi in difficoltà, stretti tra gestioni sportive deludenti e costi dilatati che sovente costringono all’abbandono. “Ma così il dilettantismo diventa professionismo, e se vuoi essere una mosca bianca, ovvero se una società vuole essere virtuosa e vuole far giocare i giovani, allora retrocede. Di fatto a 18-19 anni tanti ragazzi, anche molto bravi, smettono di giocare…”. Il cerchio si chiude. Non è dato sapere con certezza se ci sia una relazione con lo stato dell’intero sistema calcio nazionale, e se si possa confermare o meno quanto sostenuto da un ex grande calciatore come il catalano Cesc Fabregas, che da allenatore del Como e valorizzatore di talenti ha detto di essersi trovato in difficoltà nella ricerca di giovani italiani di livello adeguato al grande calcio. Ma il sospetto, se si parte dalla base della piramide, non pare però del tutto infondato.

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