(Ansa)

Il foglio sportivo

Cabrini, il bell'Antonio che sapeva farsi amare

Antonello Sette

“Il ricordo più bello è il Trofeo Albertoni: avevamo una felicità che ignorava il futuro”, ci racconta il terzino campione del mondo nel 1982

Sono nato a Cremona, ma la mia vita è cominciata e forse non è mai finita, nella cascina Mancapane, dove c’era l’azienda agricola di famiglia. Il cortile della cascina è stato il mio campetto dell’oratorio. Giocavo a pallone con i figli dei dipendenti, erano tanti da formare una squadra”. Antonio Cabrini, Il Bell’Antonio come lo definì Gianni Brera, ispirandosi al protagonista del libro di Vitaliano Brancati, è un signore, naturalmente bellissimo, di quasi 68 anni, che vive proiettato sul presente, senza malinconie, senza rimpianti, senza nemici e senza alcuna voglia di cercare un posto al sole nel mondo dove è stato il protagonista di una favola per tanti versi inimitabile, la bella copia di un calcio pulito e vincente di cui in Italia si sono perse le traccia, capace alla fine della fiera di andare controcorrente anche nella gerarchia dei ricordi…

 

“Mio padre Vittorio avrebbe voluto che da grande rilevassi l’azienda di famiglia e il calcio gli sembrava più un intoppo che un’opportunità. Chiamava i presidenti delle squadre della zona per supplicarli di non inserirmi nei loro organici, ma il mio destino è stato più forte delle sue resistenze. La mia prima maglia vera è stata quella azzurra del Casalbuttaro, la seconda la grigiorossa della Cremonese”. È lì che incontra, quando era ancora solo un ragazzino, mister Ivano Nolli, per tutti “Babo”, passato alla storia come il regista che ha cambiato la storia del protagonista, trasformandolo per sempre nel primo terzino fluidificante a memoria d’uomo, che partendo da sinistra avrebbe progressivamente sbaragliato il mondo… “Babo non era solo un grande allenatore, ma anche un secondo padre attento e premuroso. Mi ha insegnato tanto tecnicamente, tatticamente e, ancor di più, mentalmente. Avevo 13 anni e sino ad allora avevo sempre giocato da attaccante di sinistra. È stato lui a convertirmi a terzino sinistro e da lì è iniziato tutto quello che sarebbe stato”.

 

Due anni alla Cremonese, uno all’Atalanta, prima delle 13 straordinarie stagioni da protagonista nella Juventus di Giampiero Boniperti e, soprattutto, di Gianni Agnelli: sei scudetti e il primo calciatore, insieme al mitico capitan Scirea, ad alzare, una dopo l’altra, la Coppa Italia, la Coppa Uefa, la Coppa delle Coppe, la Coppa dei Campioni, la Supercoppa Uefa e la Coppa Intercontinentale, sino a diventare il sex symbol della mentalità vincente per antonomasia…

“La mentalità vincente, che ho respirato sin dal primo impatto, aveva, come suo primo dogma, non regalare niente all’avversario. La vittoria, come unico obiettivo, diventava parte del dna di tutti i giocatori, il patrimonio genetico collettivo, che trasformava undici individualità in una squadra tendenzialmente imbattibile. Quando mi incontrò per la prima volta, Boniperti mi chiese se pensassi di essere venuto alla Juventus per arrivare secondo. Perché o stavi alla Juve per vincere o era meglio che cambiavi aria e andavi a perdere altrove”. 

 

Chi è stato per lei Gianni Agnelli?

“Era un imprenditore di portata mondiale e la Juventus era per lui la ciliegina sulla torta. Era un grande intenditore di calcio e, a dispetto di un’immagine da leggenda vivente, se avevi bisogno di lui, c’era sempre. Avevo con lui un rapporto speciale. Pensi che la trattativa, poi sfumata, per portare Luca Vialli dalla Cremonese alla Juve non si svolse nella sede sociale e neppure nel suo mega ufficio alla Fiat, ma a casa mia. C’erano l’Avvocato e Luca con il papà. Boniperti, Agnelli, la Juve sono stati, e non solo per me, una scuola di vita, dove ti insegnavano solamente a vincere. Poi c’erano le gerarchie del cuore. Eravamo tutti indissolubilmente legati gli uni agli altri, a dispetto delle differenze, anche vistose, di età. C’erano Bettega, Tardelli, Zoff, Furino e Fanna, ma sopra tutti Gaetano Scirea, il capitano, il più speciale di tutti noi e il mio coetaneo Cesare Prandelli, che, partendo dagli allievi della Cremonese, ha fatto la mia stessa trafila, ma con un anno di ritardo”.

 

Con la maglia a tinta unita della Nazionale, l’epopea non si moltiplica, ma si allarga a un paese intero. Antonio Cabrini è stato il miglior giovane dei Mondiali argentini del 1978, campione del mondo 4 anni dopo a Madrid, il gol all’Argentina, il rigore sbagliato al principio della finale contro la Germania, che avrebbe offerto lo spunto per uno dei suoi libri autobiografici, intitolato, in omaggio a Francesco De Gregori e a sé stesso, “Non aver paura di sbagliare un calcio di rigore”.

“Ero il secondo rigorista, dopo Giancarlo Antognoni, che però si era fatto male e stava guardando la partita dalla tribuna”. 

 

A distanza di tanto tempo lo possiamo dire che le parole di Paolo Rossi, venutole vicino per dirle se se la sentiva di tirare quel rigore, non sono un buon viatico per l’esecuzione…

“Per me Paolo è solo affetto infinito e rimpianto, ma effettivamente me l’ha tirata. Ho scritto quel libro per ribadire che l’infallibilità non è di questo mondo. Tutti possono sbagliare. Gli errori li devi saper cavalcare e gestire. Altrimenti, come è accaduto, un rigore fallito può compromettere una carriera intera. Naturalmente, nel mio caso fui aiutato dall’ininfluenza della mia défaillance sull’apoteosi finale”. 

 

Una Nazionale capace di sovvertire il pronostico e le titubanti premesse…

“C’era l’alchimia giusta. Tanti bravi giocatori, che un grande allenatore, come Enzo Bearzot, seppe trasformare in una squadra unita e vincente. Sei calciatori di quella Nazionale giocavano nella Juventus, ma con le sensazioni di allora e il senno di poi posso dire che quella compattezza fu magica perché non aveva colori di parte, ma solo l’azzurro”.

 

Dopo aver smesso con il calcio giocato, ha allenato Arezzo, Crotone, Pisa, Novara, la nazionale dell’Iran e l’Italia femminile…

“In Siria non c’erano le condizioni minimali per poter restare più di due partite. Tanta passione intorno, ma a ogni mia richiesta rispondevano sempre “domani”, che era la litania dell’impotenza. Quella con la Nazionale femminile è stata un’esperienza protrattasi per 5 bellissimi anni anche se non ho raccolto i frutti che sono maturati dopo, credo di aver posto le basi per una svolta. Le calciatrici con me hanno smesso di essere solo figurine con una maglia indosso, ma sono diventate donne con una personalità forte, popolari e riconoscibili anche al di fuori del rettangolo di gioco. Il calcio femminile in diretta su Rai1 non nasce oggi, ma viene da lontano e, senza pretendere che me lo riconoscono gli altri, credo di essere stato un buon seminatore”.

 

Poi c’è la grande bellezza, che elevò il Bell’Antonio, come scrisse il giornalista e poeta siciliano Vladimiro Caminiti, al Rodolfo Valentino del più grande spettacolo del mondo, senza le zone d’ombra e le angosce del divo per forza e per caso. Quella bellezza, che ha fatto del principe di Cremona Antonio Cabrini il primo divo calcistico della pubblicità e spinto centinaia di migliaia di ragazzine a spedirgli il loro amore. Cinque sacchi di letterine ancora accatastate nella cascina Mancapane, insieme a ciocche di capelli, treccine e foto di ogni genere e prospettiva…

“Con la bellezza non ho mai giocato, anche se è vero che mi sono ritrovato al centro dell’esplosione della pubblicità dentro il pianeta calcio. Le ragazze scrivevano e chiedevano di tutto, senza troppi giri di parole. A molte di loro ho risposto, ma senza mai farmi coinvolgere sino al punto di debordare dal mio mondo”. 

 

Ora, caro Cabrini, per lei non c’è più differenza fra il calcio e quei mucchi di letterine, dove le giuravano amore eterno. È tutto passato…

“Sì e indietro non torno. Non cerco palcoscenici alternativi, non elemosino parti defilate e, tanto meno, comparsate. Ho deciso che è arrivato il momento di volermi bene, mi godo tutto quello che mi piace ora: la mia meravigliosa famiglia allargata, le mie figlie, i miei nipotini, il padel”.

 

Il padel?

“Sì, sono un maestro di primo livello e con Cesare abbiamo aperto un centro a Cremona”. 

 

Anche lui gioca a padel? 

“No, lui preferisce il golf e poi è appena tornato nello staff della Nazionale. Lui, a differenza di me che credo non sarei più in grado, al calcio può ancora dare tanto, ma si è buttato a capofitto nell’impresa pur di condividere con me l’ennesima avventura. Cesare è il mio amico del cuore. Ho vissuto accanto a lui il dramma della morte della moglie Manuela, a cui ero legatissimo, anche perché, come me, veniva dal mondo, che solo chi conosce può sapere quanto è bello, dei campi coltivati e dell’agricoltura”.

 

Il gol più bello?

“Quello del 2 a 1 all’Argentina nel 1982. A parte l’importanza, il passaggio di Bruno Conti era arretrato e non era facile coordinarsi e impattare il pallone nel modo giusto”.

 

È il ricordo più bello?

“No, il più bello in assoluto è il trofeo Albertoni, vinto a 14 anni con la Cremonese, battendo in finale la Juventus. C’era già Cesare al mio fianco. C’erano Paolo Rossi, Nicola Zanone e Luciano Marangon. Eravamo giovanissimi e fortissimi. Posseduti da una felicità che ignorava il futuro, ma cominciava a prendere i sogni per mano”.

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