
Foto Epa, via Ansa
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White Sox, la squadra del Papa
Sono “gli scarsi” del baseball, ma con un tifoso d’eccezione: Leone XIV. La redenzione da un vecchio scandalo
I luoghi di pellegrinaggio in giro per il mondo, spirituali o laici che siano, sono spesso insoliti. Aree rurali e sperdute che divengono d’un tratto celebri per apparizioni mariane. O piccole botteghe alimentari che all’improvviso vengono prese d’assalto per merito di Tripadvisor. Ma è difficile immaginare una mèta di pellegrinaggio più insolita della poltroncina numero 2, fila 19, sezione 140 del Rate Field, uno stadio del baseball a Chicago che prende il nome, tutt’altro che leggendario, dalla società di mutui a buon mercato per l’acquisto della prima casa che sponsorizza la squadra locale: i White Sox. Loro sì leggendari, i “calzini bianchi” che da 125 anni sono la gioia e soprattutto la pena del South Side di Chicago, la parte più operaia, proletaria e ricca di immigrati e minoranze della città dell’Illinois.
Una delle caratteristiche che rendono iconici i White Sox e li hanno fatti diventare protagonisti della cultura popolare e beniamini di star dello spettacolo è quella che i più benevoli chiamano la “maledizione” della squadra, mentre i più cinici la definiscono in modo diverso: “Sono scarsi”. Quale che sia la verità, quel che è certo è che la storia del team di Chicago è segnata da rare vittorie, un gigantesco scandalo e tanti, tanti anni di digiuno.
Dopo aver vinto nel 1906 e nel 1917 le World Series (la finalissima in sette partite che chiude i due campionati nazionali di baseball), i White Sox non sono più riusciti a ripetere l’impresa per 88 anni. Poi, vent’anni fa, d’improvviso il miracolo: un titolo vinto nel 2005 dopo aver dominato la stagione, un trionfo che a distanza di due decenni viene ancora raccontato ai più piccoli con toni da leggenda. E che da qualche mese ha assunto caratteristiche nuove e un tocco di misticismo, mescolato a un po’ di kitsch sportivo all’americana. Perché nel Game 1 della serie di partite finali contro gli Houston Astros, seduto sulla poltroncina numero 2 della fila 19, sezione 140, le telecamere quella sera del 2005 catturarono un sacerdote vestito con la jersey bianca a righe nere dei Sox. All’epoca lo conoscevano come padre Bob Prevost, oggi è Papa Leone XIV e il suo posto allo stadio di vent’anni fa è diventato una specie di tabernacolo laico e un punto di attrazione per chi va al Rate Field a veder giocare i Sox. La società sportiva ha dedicato anche un murale a “Pope Leo”, come lo chiamano gli americani (o “Da Pope”, come lo chiamano i locali nello slang di Chicago), e il pontefice in questi primi mesi in Vaticano ha ricambiato l’affetto più volte, mostrandosi con il cappellino della squadra del South Side e firmando varie maglie del team. Compresa quella con il numero 14 che una settimana fa è stata consegnata con una cerimonia all’eroe della squadra del 2005, Paul Konerko, che giocava con quel numero che oggi condivide con il Papa (sul retro della maglia sono stati scritti insieme i nomi “Konerko” e “Pope Leo”).
Trentamila persone un mese fa si sono riunite nello stadio di Chicago per una messa in onore di Leone XIV e per ascoltare un suo messaggio video, a conferma dell’entusiasmo che accompagna la scoperta di avere un tifoso così importante, che ha superato anche l’altro celebre residente del South Side finora considerato il maggiore fan dei Sox: Barack Obama. C’era anche lui, all’epoca giovane senatore dell’Illinois, quella sera del Game 1 del 2005, probabilmente l’unico evento sportivo nella storia a cui hanno partecipato contemporaneamente un futuro Papa e un futuro presidente degli Stati Uniti. E a Chicago ora ci si interroga su quanto sia stata “provvidenziale” la loro presenza per far vincere il titolo a una delle squadre più amate e scalognate della storia del baseball, che dopo quel momento di luce di vent’anni fa è tornata nel consueto cono d’ombra. L’anno scorso i White Sox hanno stabilito un record negativo nel più americano degli sport americani, con 121 sconfitte: un primato strappato ai Mets del Queens, che resisteva dal 1962. Quest’anno non sta andando meglio, sono ultimi nella classifica della zona Central del campionato American League e al ritmo attuale finiranno con 108 sconfitte, la terza stagione di fila e la quarta negli ultimi otto anni nella quale i Sox sfondano la soglia della vergogna delle cento partite perse. Una débâcle che i tifosi in buona parte attribuiscono alle scelte di Jerry Reinsdorf, il miliardario che da quarant’anni possiede i Chicago Bulls del basket e i White Sox e che ora sembra pronto a cedere la squadra e a uscire dalla Major League Baseball (Mlb, la lega che riunisce le squadre professionali americane).
I pellegrini in visita al murale e alla poltroncina che fanno adesso dei White Sox “la squadra del Papa”, sperano sia la volta buona per una svolta. Ma sono abituati a fare il tifo per un team che storicamente richiede una fede sportiva che non può certo poggiare sui miseri risultati ottenuti da quando, nel 1900, i White Sox furono portati a Chicago da Charles Comiskey, leggendario fondatore di una società che ha segnato, nel bene e nel male, la storia del baseball americano. Il team era nato a Sioux City in Iowa, si era poi trasferito a St. Paul in Minnesota e infine era approdato nel South Side. Da subito era cominciata la rivalità con i cugini del North Side, i Chicago Cubs, un’altra squadra che in quanto a scarsità di vittorie non scherza: dopo aver vinto le World Series 1907 e 1908, è rimasta a secco fino alla stagione 2016.
Nei primi vent’anni del secolo scorso, con i Cubs e i White Sox, Chicago dominava lo sport americano con una superiorità che non si sarebbe più rivista in città fino agli anni Novanta, quelli della dittatura nel basket dei Bulls di Michael Jordan e Phil Jackson. Poi avvenne il fattaccio che cambiò tutto.
Nel 1917 i Sox conquistarono il titolo battendo i New York Giants con una squadra che in quel momento sembrava invincibile. Due anni dopo, nel 1919, erano di nuovo in finale, stavolta contro i Cincinnati Reds. La superstar era l’esterno “Shoeless Joe” Jackson, che da anni trascinava i Sox di vittoria in vittoria e sembrava pronto a un nuovo trionfo. Ma quell’anno c’erano forti dissapori tra i giocatori e Comiskey, che li pagava poco e non aveva certo un buon carattere. Innumerevoli teorie si sono susseguite negli anni su cosa sia successo in quelle World Series. Il dato di fatto è che i Sox persero con i Reds e otto giocatori di Chicago, incluso Jackson, furono poco dopo accusati di aver provocato intenzionalmente la sconfitta, per un giro di scommesse clandestine guidate dalla criminalità organizzata locale, che già controllava mezza città (il 1919 è anche l’anno in cui da New York arrivava a Chicago un personaggio destinato a dominarla per anni: Al Capone).
“Shoeless Joe” e altri tra quegli otto hanno passato il resto della loro vita a cercare di provare la loro innocenza, ma la lega scelse la linea dura, li squalificò a vita e mise così fine al dominio dei Sox, aprendo la strada a ottantotto anni di attesa prima di tornare a vincere le World Series nel 2005. Non sorprende che quella finale sia stata un evento così unico e importante da spingere anche padre Prevost a rientrare a Chicago per assistere a un match della squadra del cuore, in anni in cui era sempre in giro per il mondo come priore generale dell’ordine degli Agostiniani. Il 2005 ha segnato in qualche modo la fine della “maledizione dei Black Sox”, come sono stati ribattezzati gli atleti di quella mitica e discussa squadra del 1919.
Lo scandalo dei Black Sox è ormai da tempo una pagina importante della cultura popolare americana. Decine di libri sono stati dedicati alla vicenda di “Shoeless Joe” e compagni, inclusa una citazione nel “Grande Gatsby” di Francis Scott Fitzgerald. Anche Hollywood si è innamorata più volte della storia. Dopo un paio di accenni allo scandalo nel “Padrino” di Francis Ford Coppola, nel 1988 è arrivato il primo film interamente dedicato al caso, “Otto uomini fuori” di John Sayles. Ma la pellicola più celebre sul team degli infelici di Chicago è arrivata un anno dopo: “L’uomo dei sogni” (“Field of dreams”), insolita fiaba moderna con l’agricoltore Kevin Costner che costruisce un campo da baseball in mezzo al niente tra le distese di mais dell’Iowa, per far tornare a giocare il fantasma di “Shoeless Joe” (Ray Liotta) e far felice uno scrittore innamorato di quella squadra (James Earl Jones). E visto che le favole molto spesso hanno un lieto fine, due mesi fa la lega ha deciso di rimuovere Jackson dalla lista nera del baseball, riconoscendo che nel 1919 ebbe un ruolo marginale e forse addirittura inesistente nello scandalo. Il campione del passato è ora candidabile alla Hall of Fame, l’olimpo del baseball che ogni anno attrae migliaia di fan a Cooperstown, la cittadina nello stato di New York dove la leggenda vuole che sia stato inventato lo sport fatto di mazze, palle e guantoni e che oggi ospita il museo delle celebrità. In base alle procedure della lega, “Shoeless Joe” potrebbe essere aggiunto alla lista dei grandi del baseball nel 2028, cancellando così la sua leggenda nera.
Una leggenda che comunque ha contribuito al mito dei Sox e che sicuramente ha accompagnato anche l’infanzia e l’adolescenza di Robert Prevost e dei suoi fratelli nel South Side negli anni Sessanta e Settanta. Quando i White Sox erano celebri per non vincere mai, ma il suo pubblico affollava comunque il Comiskey Park, lo stadio dell’epoca che era il luogo dei sogni dei piccoli Prevost, poi demolito nel 1991. Chissà se un giorno il Papa racconterà che effetto ha avuto sulla sua formazione e il suo carattere crescere come uno dei “Comiskey Boys”, i ragazzi dello stadio dei Sox che cominciavano ogni stagione sperando in un successo della squadra del cuore, per poi restare immancabilmente delusi. Un destino che condividevano con i rivali dei Cubs, ma soprattutto con i Red Sox di Boston. Anche questi ultimi sono stati a lungo famigerati per una maledizione, quella cosiddetta “del Bambino” perché collegata alla figura del grande campione Babe Ruth.
Nel 1918 i Red Sox vinsero le World Series e l’anno dopo, mentre i “calzini bianchi” di Chicago finivano invischiati nello scandalo, la squadra di Boston decise di vendere la propria stella ai rivali dei New York Yankees. Fu l’inizio della dinastia di successo della squadra newyorchese, trascinata da Babe Ruth, mentre a Boston cominciava una lunghissima stagione di magra che si è conclusa solo con la vittoria nelle World Series del 2004. Una siccità di titoli che è durata quindi quanto quella dei White Sox, ma che a differenza di Chicago si è trasformata a Boston in un inizio di ciclo positivo. I Red Sox hanno vinto ancora nel 2007, 2013 e 2018 e sono diventati una delle squadre più forti, anche per la scelta strategica di seguire la nuova impostazione del baseball basato sull’analisi dei dati e delle statistiche inventata nel 2002 dal manager degli Oakland Athletics Billy Beane, il personaggio a cui ha dato un volto Brad Pitt nel film “Moneyball” (la stessa impostazione che un allievo ed estimatore di Beane, Damien Comolli, vuole portare ora alla Juventus, dove è appena diventato direttore generale).
A Chicago invece si è rimasti ancorati alle tradizioni, anche per ridisegnare il logo della squadra si è pensato di tornare alla grafica e al font dei “Sox” di inizio Ventesimo secolo. La sorpresa è stata vedere quanto è piaciuto ai fan questo ritorno al passato: ben presto le divise e i cappellini dei Sox sono diventati di moda in tutto il paese, indossati tra l’altro tra le star della cultura hip hop come Dr. Dre ed Eazy-E. Strano destino di una squadra che vince pochissimo e si porta dietro l’antico stigma di uno scandalo, ma è “cool” e amata dal suo pubblico variopinto ed etnicamente molto più misto di quanto possa sopportare l’America Maga. E che ora può vantarsi di poter contare sulle preghiere di un tifoso speciale che è diventato Papa. Chissà che Chicago non sia pronta per una nuova favola da “uomo dei sogni” e che dopo la fine della lunga epoca di Reinsdorf non sia in arrivo, anche per i calzini bianchi, una stagione di successi analoga a quella dei calzini rossi bostoniani. Negli appartamenti vaticani c’è un supertifoso che di bianco non indossa solo i calzini e che in quel caso sarà pronto a fare festa.


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