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Il Foglio sportivo
“In Azzurro davamo l'anima”. Intervista a Angelo Domenghini
“All’Inter si parlava sempre di Mazzola, Corso e Jair, ma modestamente c’ero anch’io”. Da Herrera a Riva passando per Italia-Germania. Il racconto di Domingo: “Quanto tornammo dal Messico ci presero quasi a botte, altro che partita del secolo”
La voce roca di Angelo Domenghini, Domingo per tutti quelli che gli hanno voluto bene, 84 anni dribblati ogni giorno con più fatica, arriva dal mare di Liscia di Vacca, la spiaggia delle mucche, nel cuore della Costa Smeralda. In quella Sardegna dove ancora si tramandano le gesta dell’irripetibile Cagliari di Gigi Riva, che, per chi non lo sapesse, era anche, e non poco, il suo…
“Questa casa l’ho comprata più di cinquanta anni fa. È stato un buon investimento, anche se nessuno dei miei compagni mi seguì. L’ho pagata 30 milioni. Sarebbe stato un affare anche per loro. Ci vengo quando comincia a fare caldo. Poi, quando l’acqua diventa troppo fredda, torno a Lallio, il paese a una manciata di chilometri da Bergamo, dove sono nato e ho cominciato a fare i primi sogni a occhi aperti. Piccoli sogni cresciuti in fretta, sino a diventare più grandi di me. Con il passare degli anni Lallio ha aumentato del cinquanta per cento il numero degli abitanti e, se prima eravamo in quattromila, oggi siamo seimila. E forse anche di più. Mio padre gestiva con mia madre un’osteria. Eravamo nove fratelli, sei femmine e tre maschi, e la casa, che era lì sopra, non riusciva a contenerci tutti. Marcello, il maggiore dei miei fratelli, abitava nel Palazzo Pesenti, ed era una delle persone più in vista del paese. Aveva un pianoforte, ma la musica non faceva per lui e così decise di venderlo per comprare la bicicletta di Fausto Coppi. Una delle sorelle dormiva con la nonna. Le altre tutte ammucchiate in una stanza. Io e Claudio, il più piccolo, purtroppo non c’è più neppure lui, con mamma e papà. A Lallio non c’era spazio neppure per dare un seguito ai sogni. Per tirare calci a un pallone, io e i miei amici eravamo dovuti emigrare nove chilometri più in là, quanto distava Verdello, che era il doppio di Lallio, dove c’era il campo dell’oratorio e, soprattutto, c’era Don Antonio, che comandava su ogni cosa. C’era poco tempo per allenarsi. Io lavoravo alla Magrini come apprendista, ma dentro di me speravo che il lumicino acceso da Don Antonio non si sarebbe spento e sarei diventato un calciatore a tutti gli effetti, magari a mezzo servizio, in atteso del tempo pieno. Con il Verdello ho giocato in Prima Categoria, sino a quando Don Antonio non decise di vendermi all’Atalanta. Inizialmente mi barcamenai fra due padroni, la mattina alla Magrini e il pomeriggio nella mia nuova squadra, ma un bel giorno quelli della fabbrica si resero conto che di un mezzo operaio non se ne facevano niente e fu solo Atalanta, solo calcio, solo sogni che correvano con il pallone fra i piedi. Guadagnavo centocinquantamila lire al mese, poco meno del doppio di quanto prendevo alla Magrini e al terzo anno vincemmo la Coppa Italia, battendo in finale il Torino con tre gol tutti miei. L’anno seguente sono già all’Inter, piena zeppa di campioni, del mago Helenio Herrera”.
Inizia la cavalcata. Angelo Domenghini da Lallio, diventa Domingo, come il grande tenore spagnolo, anche lui nato nel 1941. E, con l’Inter e nell’Inter, scrive quella che rimane forse la storia più grande. Non della musica e del canto, ma del football, il più grande spettacolo del mondo. Un’epopea durata cinque anni. Il palmarès personalizzato mette in fila due scudetti, una Coppa dei Campioni, due Intercontinentali, i gol, lo stupore del mondo intero… Helenio Herrera?
“È stato lui a volermi all’Inter. A giochi fatti, ci aveva visto bene. I grandi allenatori, maghi compresi, sono tali quando una squadra è forte e lui l’aveva fortissima, dal primo all’ultimo componente della rosa. Aveva dalla sua anche un po’ di fortuna e quella non guasta mai”.
Mazzola, Suarez, Corso e… Domenghini…
“La prego, non dimentichi Jair”.
Come potrei? La Freccia Nera…
“I primi due anni facevo il centravanti. Poi mi sono spostato per fare posto a lui. Io non mi sono mai sentito un’ala. Ero per natura quello che oggi si direbbe un centrocampista di destra, ma nella pratica, che è cosa ben diversa dalle attitudini, facevo quello che mi chiedeva l’allenatore. Largo, largo, mi gridava Valcareggi e io mi allargavo sulla fascia e puntavo l’uomo. All’Inter parlavano sempre di quei tre. Campioni straordinari per carità, ma modestamente c’ero anch’io, il più forte in assoluto nel mio ruolo. Non me lo dicono gli altri. Me lo dico da solo”.
Da quella squadra inarrivabile allo storico scudetto con il Cagliari del 1970. Da San Siro all’Amsicora, che di lì a poco avrebbe chiuso i battenti per far posto al più capiente, ma meno glorioso Sant’Elia…
“Fu un anno meraviglioso. L’entusiasmo era incontenibile. Gigi Riva era più che una bandiera. Aveva la voglia di buttarla dentro nelle vene. Lui i gol li amava. Era un uomo semplice, un vincente, un portafortuna. La fortuna aiuta gli audaci, e lui lo era oltremisura”.
Pochi mesi dopo quello scudetto irripetibile e irripetuto, ed esattamente il 17 giugno, allo stadio Azteca di Città del Messico ci sarebbe stato quell’Italia-Germania 4 a 3, etichettata come la partita del secolo in tutte le lingue del mondo. Due anni dopo aver aggiunto, sempre con Valcareggi che lo aveva voluto a inizio carriera all’Atalanta, all’elenco dei trofei il titolo di Campione d’Europa, segnando in extremis il gol che era valso lo spareggio con la Jugoslavia. Centoventi e più minuti di fuoco a spingere sulla fascia destra, senza fermarsi mai…
“Ma quale partita del secolo! Semmai i supplementari del secolo. Cinque gol in mezz’ora, un’altalena di emozioni, il grande gol finale di Rivera. Prima, i novanta minuti regolamentari, erano stati tutt’altro che un grande spettacolo e, se non fosse stato per il gol di Schnellinger all’ultimo minuto, sarebbe finita con uno striminzito 1 a 0 e non sarebbe certo passata alla storia come una partita memorabile. E non si può dimenticare che meno di quattro giorni dopo c’è stata la finale con il Brasile, che abbiamo perso alla fine anche malamente, dopo più di un’ora giocata alla pari. Il sogno vero di tutti noi era quello di battere anche il Brasile e tornare a casa con la Coppa Rimet a bordo dell’aereo. Allora sì che sarebbe stata una grande festa”.
E invece?
“E invece al ritorno a Roma ci sono state le botte”.
Le botte?
“Si informi, se non ricorda. Si sono scagliati contro il pulmino dei dirigenti. Non so se erano arrabbiati solo per i sei minuti concessi a Rivera, a risultato acquisito. So che siamo stati contestati e che tutto si è risolto in un pasticcio. La leggenda di Italia-Germania 4-3, la targa all’Azteca a perenne ricordo, il film e le rievocazioni sono arrivati molto dopo. Niente di nuovo sotto il sole. Quando in Italia non si vince, si grida sempre allo scandalo”.
Oggi la Nazionale appare un peso o una pratica da sbrigare in fretta. Sembra che basti un doloretto per sottrarsi alle convocazioni o tornare a casa…
“Sono cose che seguo poco e, soprattutto, non ci sono dentro. Quello che posso dirle è che noi alla Nazionale davamo tutti l’anima, ma che vuole, tutto il calcio è cambiato. Poche squadre giocano ancora a uomo, e il gioco è super organizzato, anche quando mancano i giocatori adatti per praticarlo”.
Voi siete stati contestati per una finale persa contro il Brasile di Pelè. Oggi l’Italia rischia di non partecipare al terzo mondiale di fila…
“Nel calcio contano i risultati, è inutile mettersi a piangere”.
Mancano i campioni?
“Strano paese il nostro. Quando nel 2020 Roberto Mancini vinse l’Europeo, il primo dopo il mio, erano solo elogi, baci e abbracci. E naturalmente erano tutti fenomeni. Oggi non ci sono i risultati e sono diventati tutti brocchi. La verità che sono i risultati a fare i campioni”.
Sogna ancora Angelo Domenghini?
“Rivivo spesso dentro di me i momenti più belli: i gol, le vittorie, il boato che rimbalza dagli spalti. Quanto ai sogni, sono sempre stati proiettati verso il futuro. E a 84 anni il futuro sono i nipoti che stanno crescendo. Sono tanti, sa, al punto di perderne il conto. Sono loro che mi fanno ancora sognare”.